Ogni anno mi ripropongo che su Paper Boi farò dei listoni di fine anno, che cambino un po’ il modo di fare delle classifiche, quei papiri pieni di roba messa un po’ a caso. Poi, come spesso accade, non succede. Però, tra le varie cose uscite nel 2022, c’è un disco che mi ha fatto fare delle riflessioni. Non è una classifica, non è una editor pick, è come al solito un pippone autoreferenziale con all’interno un po’ di rap. Buona lettura.
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Sul finire del 2022, in una tiepida notte genovese, in rapida successione mi sono accadute due cose che se fossero accadute al protagonista di un film sarebbero quelle che gli fanno capire che deve prendere la sua vita in mano. Sono successe in rapida successione, una dopo l’altra, e anche se quello che segue lo avevo già in testa da un po’, sono l’occasione perfetta per creare un incipit ad effetto.
Tornando a casa da una cena tra amici, dal sapore di rimpatriata che finisce con me alticcio che faccio le imitazioni dei professori (dimostrando ancora una volta che sono l’unico al mondo con questo talento a non essere diventato un famoso attore di Cinecittà), ho visto morire un gatto, investito. O forse, per meglio dire, l’ho lasciato morire. Ero appena sceso dal sellino della moto che mi aveva portato a casa quando, col conducente, abbiamo visto sull’altra careggiata una coda e delle zampe agitarsi. Ho tolto il casco, provato a contattare la mia ragazza a casa con la madre veterinaria, e iniziato ad attraversare la strada. Nella rapida successione di questi avvenimenti, quelle zampe che provavano probabilmente a chiedere aiuto o più semplicemente a rimanere aggrappate alla sopravvivenza senza la piena comprensione del tutto, hanno smesso di muoversi, il mio telefono ha continuato a squillare a vuoto fino a sentirmi rispondere dal nastro registrato di Iliad e nel tempo in cui mi sono ritrovato davanti al gatto era ormai chiaro che il mio intervento sarebbe stato inutile. Non avrei saputo cosa fare neanche prima, ma a quel punto ero arrivato in ritardo, avevo fallito.
Come detto, uscivo da una cena con vecchi amici e compagni di classe. Ero l’unico con delle sneaker, l’unico con un piumino e non un cappotto, l’unico con una maglia di calcio e non una camicia o un maglione. Alla mia sinistra c’era una coppia di miei ex compagni di classe, che proprio su quei banchi ha fatto nascere un amore, che quest’estate si è sposata e che ad aprile avrà un figlio. Alla mia destra la persona con cui sono stato durante gli anni del liceo, con un anello al dito, che non ho notato per tutta la sera. Poco prima di vedere il gatto di cui sopra, il mio amico che mi ha dato un passaggio in moto mi ha chiesto se sapessi che a dicembre ci sarebbe stato un matrimonio, l’ennesimo ormai sopraggiunti i trent’anni. Proprio tra la mia “ex” - mi fa ridere usare questo linguaggio per una relazione giovanile se non addirittura infantile - e la persona con cui ha iniziato a uscire da dopo il liceo. E no, ovviamente non lo sapevo. Così, mentre io imitavo il prof di filosofia che ci imponeva di non dire “ok” perché siamo nel “Belpaese laddove il sì sona” e la prof di lettere e latino che quando qualcuno bussava alla porta esclamava “Kibbutz?", accanto a me la gente rideva, poi tornava a preoccuparsi di come mantenere un figlio, di come arredare la casa appena comprata, se cambiare macchina o meno. Nel frattempo io non ho ancora la patente. E, se non sono riuscito neanche a salvare un animale dal suo triste destino, pensa come potrei un domani prendermi cura di un figlio.
Il 2022 è anche l’anno in cui ho riscoperto di avere un amico. Mi fa ridere parlare in questi termini, perché mi sono sempre ripromesso di non voler fare questo lavoro per diventare amico di chi mi ascoltavo, però ci sono dei sentimenti che alla fine non scegli, delle persone con cui ti trovi e alla fine degli amici che amici lo diventano al di là di quello che fanno. È una persona che conosco da praticamente i miei primi anni a Milano, che durante la pandemia era volata un oceano di distanza, con la quale avevo lavorato proprio a un disco uscito in quel periodo, un disco che in qualche modo lo aveva allontanato da tutto e tutti. In pratica - per qualche ragione (lui direbbe la cancer culture, giocando con il nostro mese di nascita) - abbiamo passato la pandemia entrambi convinti che uno ce l’avesse con l’altro, senza un reale motivo. Poi, sul finire dello scorso anno (o era l’inizio di questo?), ci siamo scambiati lunghi messaggi pieni di sentimento su Whatsapp, poi pranzato in una trattoria, infine lavorato al suo nuovo disco e poi litigato tutti i giorni dall’uscita del disco a oggi.
Questo disco è stato il primo disco della mia vita in cui sono finito nei ringraziamenti, con un aka sempre per il fatto di essere due giovani ragazzi Cancro, come detto prima, ma soprattutto un disco che ha messo in prospettiva un paio di cose che pensavo di sapere sul rap.
Sto parlando di Nicolàs, il disco di Egreen.
Da quando ascolto il rap, uno dei capisaldi è racchiuso in una barra, un verso, una line che probabilmente su queste pagine ho citato a profusione, ma ho la fortuna di dimenticarmi in fretta di ciò che scrivo: “Started from the bottom, now we’re here”. Una retorica condita di frasi tipo “mai arrendersi” e tutta quella retorica degli occhi della tigre di cui parlavo anche nel primo articolo su Kobe (l’ho riletto di recente, non mento). Il rapper brillava, aveva i bling bling, flexava perché non aveva un cazzo e a un certo punto attraverso la musica aveva tutto. Anche se gli sparavano, se un disco andava male, se inciampava per qualche motivo, più forte di prima si rialzava. Il percorso del rapper era, per citare Jay Z, riassumibile in “Nothin’ can stop me, I’m all the way up”.
Il primo lavoro che ho fatto con Nicolàs, è stato il suo primo disco in major. Eravamo già amici, non come adesso, tanto che uno dei rimpianti (nonché uno dei motivi per cui pensavo avessimo scazzato) è non essere stato completamente sincero con lui. Prima dell’uscita di quel disco, per lui, quel disco sarebbe stato un passo deciso verso - stavolta cito i Migos - “That way”, una rivoluzione nella sua musica che gli avrebbe aperto altre porte, che avrebbe cambiato la figura di Egreen, che in qualche modo l’avrebbe allargata. Non ho mai pensato di dirgli che no, non l’avrebbe fatto, che nella mia testa quello era un altro progetto di Egreen su delle basi diverse, forse non sue. Sono stato un pessimo amico e un ancor più pessimo collaboratore, l’ultimo degli yes men. O forse no.
Fatto sta che - se avete ascoltato Nicolàs o anche solo Incubi lo saprete - quel disco non è andato come ci si aspettava che andasse, un po’ per il Covid, un po’ per motivi musicali, un po’ per mille ragioni che chissene fotte.
Quello che mi ha insegnato Egreen è che alla fine il rap è un genere così interessante perché, oltre all’aspetto tecnico, è una telecronaca della vita e che se qualcuno ti dice che la vita è sempre una cosa per cui devi “pushin’ P”, andare sempre su, o è un deficiente o ti sta vendendo un video-corso per illuderti di andare a vivere a Dubai.
Nicolàs è un disco sul fallimento. Ed è una cosa che non avrei mai pensato di scrivere su un disco rap. Una liberazione farlo, una presa di coscienza digitarlo, uno dei più grandi insegnamenti di questo 2022. Parte di quel fallimento l’ho analizzato con Gigi, l’ho sentito raccontare da voce viva, ma la parte più umana e fondamentale ancora non la conosco, se non per quello che è interno al disco (ed è una versione più che sufficiente per rimanerne tramortiti). Nonostante quello che dice Wrapped, è uno dei dischi che ho ascoltato di più in questi mesi, ho consumato Incubi, perché è una cronaca così dura e spietata di quello che doveva essere il miglior periodo della vita di una persona e che poi si è rivelato probabilmente il peggiore, che mi sembra di fare un torto a me e al genere che amo a non ascoltarla in ripetizione.
Per lungo tempo ho “odiato” Gigi e ciò che rappresentava, odiavo l’underground, perché mi sembrava gente che non riusciva ad ammettere che l’unico motivo per cui faceva parte della scuderia “avversaria” al mainstream fosse che il mainstream non li voleva. Ero piccolo, stupido e nella mia cameretta. Per lungo tempo Gigi ha odiato me e ciò che rappresentavo, perché ero un brufoloso post-adolescente che sosteneva che i suoi amici avrebbero spazzato via tutto.
Avevamo torto entrambi.
Salendo le scale con ancora negli occhi l’immagine di quel gatto che quasi con un sospiro di sollievo smetteva di agitare le zampe, ho ripensato al senso di fallimento nel sentirmi un perenne imberbe davanti a matrimoni, lavori sicuri e figli. Una delle prime cose che mi sono detto con la mia ragazza, nell’impeto estivo della passione, è che ci saremmo sposati. A New York. Non era una boutade, è una cosa che penso davvero e che vorrei fare davvero. Ma quel gesto, per me, anziché una presa di coscienza e di responsabilità, rimaneva una scelta di imprudenza e passionalità.
Ora, non so se agli occhi dei miei compagni di liceo io sia un fallito. Ogni tanto mi ci sento, ogni tanto penso che sono felice di essermi scelto il mio percorso, di vivere in una città, in una bolla, che mi preferisce con una maglia dell’Arsenal e un Nuptse, piuttosto che con un maglione a treccia e una camicia azzurra.
Mentre scrivo queste cose sta finendo Incubi, Egreen ha appena detto di aver visto scintille dalla cenere. So che in quel momento parla solo a livello personale, non parla di successo, di ripartire, non parla di niente di tutto ciò. Parla di una boccata d’ossigeno in un momento in cui ha pensato che la vita fosse ancor più una merda di quanto siamo abituati a pensare. Ma quella barra è l’unica che non mi piace del pezzo, per quanto la rivalsa da amico mi faccia pensare che si possa uscire da qualsiasi situazione.
Non mi piace perché, alla fine, ogni fallimento è personale. Il fallimento è una sensazione. Quello che mi ha insegnato Nicolàs è che dal fallimento nascono perle, senza il fallimento non ci sarebbe Incubi, non ci sarebbe questo disco.
Senza fallimenti non ci sarei io, probabilmente. E allora fanculo Drake. Here può essere anche the bottom.
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Una bella puntata dallo spirito natalizio.