Avete per caso quell’amico che dopo una settimana di vacanza, dal nulla, se ne esce con una battuta su un fatto accaduto all’inizio del vostro periodo insieme, ne ride e pretende che tutti si divertano quanto lui? Bene, sicuramente no, perché essere così è un appannaggio 100% di chi vi scrive. Sono Tommaso, questa è Paper Boi e parleremo di… Gué Pequeno. Argh.
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Mentre mi accingevo a scrivere queste righe, nella testa mi balenava un altro titolo di Gué, di una delle canzoni che preferisco. A lungo - un paio d’ore - ho pensato di chiamare questo pezzo “Il Blues del Perdente”, poi ho creduto che potesse essere frainteso e pertanto ho usato il titolo di una canzone di Marracash, che mi auguro non me ne vorrà. Ma comunque, ci tengo a fare un’introduzione, per chi è andato oltre il titolo, del perché si sarebbe dovuto chiamare così. Tutto chiaro?
(Credo) giovedì, è uscita un’intervista “di copertina” a Gué Pequeno. A realizzarla è Rolling Stone, nella persona del suo direttore editoriale. La scusa è quella del disco in uscita “Mr. Fini”, il contesto è abbastanza assurdo.
Negli anni si sprecano gli ammiccamenti alle dittature di Cosimo Fini, penso a una delle sue strofe più spaziali “Terrore sul campionatore, dittatore del flow con gli occhiali fashion, esercito personale, 500 tipe nell’harem, il colonnello Guèddafi sulla strumentale”, fino ad arrivare a Mimmo Flow, in cui si paragona a Palpatine e si dichiara - in qualche modo - successore di Fidel. È ovviamente tutto all’interno di un contesto di finzione e un contesto che ha un proprio linguaggio prestabilito, una delle cose più incomprese d’Italia. Il rap ha un suo linguaggio, il più delle volte semplice o semplificato, molto spesso esagerato, duro, crudo, violento. Sostengo, dunque, che sui quattro quarti - nei tre minuti di “finzione scenica” che si costruisce - sia libero di interpretare lo schifo che vuole. Mr Simpatia è l’esempio perfetto di tutto ciò.
Quando però si esce da quel contesto e si parla con persone in carne ed ossa è bene ragionare con lo spirito del tempo che ci appartiene, se non altro per non risultare fuori luogo.
Nell’intervista di Rolling Stone, o meglio nella copertina, Gué Pequeno è raffigurato come una statua d’oro che è “vittima” di un tentativo di demolizione da parte di un gruppo di protestanti, ovviamente ridicolizzati, in quanto incapaci di abbattere quello che per l’appunto è “il dittatore del rap”. E fin da questo momento, personalmente, ho iniziato a storcere il naso: in che mondo un rapper accetta di farsi raffigurare come il simbolo della sconfitta dei nostri giorni? Volenti o nolenti il processo storico sta facendo sì che quell’ammasso di pietre che chiamiamo statue e che (attenzione) non hanno nessun tipo di valore storico, al massimo di antiquariato, avendo tutt’al più un centinaio di anni - cioè tipo l’altro ieri - verranno ridimensionate, se non appunto, abbattute, demolite, cancellate. Davvero un rapper, in questo momento, può portare avanti la sua retorica del bragging immedesimandosi in qualcosa che cadrà e ridicolizzando - anche solo inconsapevolmente - chi ad oggi è protagonista di uno degli atti più rivoluzionari del nuovo millennio?
Ma se il tentativo fallimentare di Instant marketing à la Taffo è qualcosa di non riuscito, è anche il contenuto che rende il tutto, assurdamente, un blues del perdente. Gué Pequeno è sempre stato uno dei rapper con la comunicazione più interessante che io conosca. Sempre in un’intervista con Rolling Stone di qualche anno fa, a chi gli chiedeva conto dei problemi elettorali del nostro paese, rispondeva: “Ah, non so, risiedo in Svizzera”, dribblando con classe ogni possibile inciampo. Gué è anche colui che, nel dissing con Fedez, mentre tutti si affannavano a raccontare una storia che screditasse il prossimo, si sedeva sugli scogli, con una camicia Burberry aperta fino all’ombelico e ridicolizzava Fedez in 4 frasi. A Gué, in pratica, non fregava un cazzo. Ed era stupendo così.
Può non piacervi, ma la retorica del vincente è proprio quella che costringe chi si sente in tale posizione a snobbare, disrispettare chi sta sotto. Penso a Mourinho, che conosco “Monaco di Tibet”, ma non l’ad del Catania. E ogni volta che si parla di nemici, di persone che sono o possono essere d’ostacolo, si parla in generale di “rumore dei nemici”, di hater.
In questa intervista Gué, invece, piuttosto che vantare la propria superiorità, cerca di minare e intaccare quella degli altri, come probabilmente non aveva mai fatto, e già da qui, per un puro appassionato di Gué come me, questa cosa ha fatto storcere il naso. Era davvero necessario?
Ma i punti salienti sono due e sono altri:
• Questa è probabilmente l’intervista più accomodante che io abbia mai letto. Gué - specialmente nell’ultimo periodo - sta portando avanti questa retorica dell’unico portatore sano di scrittura “poetica”. Per scrittura poetica, ovviamente, non s’intende Murubutu, Rancore o il pezzo love à la Brivido, ma quella capacità di riportare un clima cinematografico nelle proprie canzoni. Se devo fare degli esempi recenti penso a La Mia Collana o Il Tipo del nuovo disco, due brani che se anche letti da Luca Ward trasuderebbero pequenità da ogni poro. Eppure questa sorta di scrittura “poetica” è qualcosa che non è più il perno del nostro, come lo era stata ai tempi di Vero, forse l’apice di questo approccio, tanto che persino Mr.Fini è stato promosso così, con continui rimandi a quel disco, anche se all’ascolto, personalmente, lo accosterei più a un Gentleman o un Ragazzo d'Oro. Eppure nessuno gliene chiede conto. E quando Gué si lancia in invettive - penso alla frecciatina ad Area Cronica - nessuno alza un dito per dire: “Però era un classico ispirarsi all’America. Vero, voi eravate molto italiani e zarri, ma almeno fino a Che Bello Essere Noi era palese l’ispirazione ai Dipset”. E invece no, lo si lascia parlare, nessun contraddittorio. Come nessuno continua a non tenere conto di una serie di frecciatine a determinati personaggi che critica, ma con cui poi collabora. Se si prende il 64 bars, lo si ascolta, senza aver idea di cosa succeda nel mondo del rap italiano, si ha l’idea di un personaggio altezzoso, mega attento a dove la sua voce finisce e non finisce. Chi invece ha anche solo accesso a Spotify, sa bene che la realtà dei fatti non sia così. Non che ci sia nulla di male, parte della forza del personaggio di Gué Pequeno è anche quella ben esplicitata da “I soldi non dormono mai / chiamami Gordon Guekko / quindi se mi paghi rappo / ma sai qual è l’unica cosa che lecco”, però ecco, non per mettere in difficoltà, ma per capire: perché nessuno gli chiede conto?
• I confetti. Gué Pequeno spara a zero su tutti: da Massimo Pericolo a Salmo, da Tha Supreme a Sfera - con cui è ovviamente più accomodante, condivido comunque appieno il suo giudizio. Eppure il bersaglio maggiore delle sue critiche è Ghali. La polemica arriva da un’intervista con il Corriere della Sera, in cui sosteneva che Ghali non sarebbe mai potuto essere “un idolo del mondo di colore”, perché non rappresentava. Sulle prime ho storto largamente il naso, poi in molti mi hanno sottolineato come quel “rappresentare” debba essere letto secondo il vocabolario dell’hip hop. E no, in realtà non ho smesso di storcere il naso. Posto che usare il linguaggio del rap in un’intervista generalista non è da campioni della comunicazione ed è altamente fraintendibile, ci sono diversi errori sul giudizio su Ghali. L’ex Troupe d’élite è un personaggio altamente paraculo, che come Fedez, in parte spinge per avere un piede fuori dal rap e dall’altra, invece, cerca tutte le volte di non perdere completamente quel tipo di pubblico, venendo fuori come un personaggio altamente confuso. Non tanto perché si debba ragionare per generi, ma perché non si intravede un’evoluzione netta, ma solo un rollercoaster di numeri che lasciano basiti. La politicizzazione di Ghali, poi, è quella del modello PD degli ultimi anni, un pastone buonista (non pensavo avrei mai usato queste parole) e populista che finisce per ammiccare più a un cdx moderato che a qualcuno di davvero progressista. Per dire: quando parla delle carceri Ghali, che pure ha avuto il padre dentro per svariati anni, non ha il coraggio di dire che quella roba è una merda, ma fa un pastone di “tutti sono buoni, tutti sono cattivi” che personalmente mi lascia ben più che basito. Eppure Gué Pequeno mette tutto sul piano del rappresent e non lo fa per i contenuti, ma per lo stile: si veste come un confetto, coi capelli da ananas, un italiano di seconda generazione non si rivedrà mai in lui. Posto che secondo me Ghali non gioca più nel campionato della doppia acca tanto da dover rappresentare, la visione di Gué dei ragazzi di seconda mi sembra un po’ quella della fiction RAI, in cui anche il più retto, deve comunque avere un lato Thug, un lato Skepta, per intenderci. La figata di Ghali, invece, è che rappresenta ciò che lui vuole rappresentare, così come negli USA Andre 3000 è diverso da Kendrick, Young Thug è diverso da Pusha, persino Cam’ron e le sue pellicce rosa e viola (cazzo, più confetto di quello) è diverso da 50Cent. Gué Pequeno sicuramente non rappresenta un ragazzo cresciuto in campagna che sarà costretto a seguire le orme del padre per il proprio sostentamento, eppure non per questo ha meno valore. La figata di “rappresentare” è proprio che ognuno possa rappresentare chi e cosa vuole, toccherà ai posteri poi seguire o meno quella strada. E invece, per l’ennesima volta, vogliamo insegnare a un afro-italiano come comportarsi, cosa deve fare per essere un vero nero, e la trovo una caduta di stile non da poco. Poi certamente l’intento conscio di Gué non era razzista, però usciamo anche da quest’ottica che il razzismo sia solo vestire un cappuccio bianco del KKK e andare in giro a picchiare i neri. Il razzismo è anche qualcosa di insito in ognuno di noi, come il dare per scontato cosa sia più rappresentativo per una comunità minoritaria che non è la nostra. Comportarsi così è razzista. Questo non vuol dire che chi si comporta così più o meno scientemente debba essere messo alla forca, ma problematizzare una serie di atteggiamenti che fino ad oggi abbiamo dato per scontato, potrebbe essere un ottimo modo di ripartire e di cambiare le cose.
P.S: “Sull’almeno fosse gay” non commento neanche, verrebbero fuori almeno altre 3000 battute, ma appunto i nomi li ho già fatti. Era dall’asilo che non sentivo dire: “vesti rosa sei gay” o “hai una borsa, sei gay”. Andate a chiedere a Pharrell Williams e alla sua campagna per Chanel bag se questa cosa lo faccia sentire “gay”.
Metto una foto di Cam’ron in pink fur perché mi va.
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Ecco ci siamo, ho litigato su FB con mezzo mondo, mi sembrava giusto farlo anche in quest’oasi felice che è la mia nl.
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Ci vediamo, hasta la vista!