Ciao ragazzoni come state? Io una favola grazie. Per la prima volta nella storia di PAPER BOI ospitiamo un rapper, felici? Io molto. Iniziamo!
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Per questa puntata devo ringraziare Federico Pucci (lo trovate su Twitter qui e vi consiglio di seguirlo, capirete il perché). Non mi ricordo se su Twitter, appunto, o su Facebook, il nostro ha condiviso un video dal titolo meno esplicativo dei miei: Prison Tech.
Non conoscevo lo zio che ci mostra il suo bel faccione mentre ci spiega quale sia la tecnologia di chi vuole ascoltare la musica in carcere, ma, nonostante il video duri quasi 18 minuti - molto più del mio span classico di attenzione - il tema mi ha rapito. In breve, all’interno, troverete:
• un sacco di device elettronici trasparenti che servono per la riproduzione di vari supporti fonografici
• una breve storia su Yeezus e di come quell’estetica probabilmente richiami proprio l’estetica della musica nelle strutture di detenzioni
• lo stretto rapporto tra le cassettine, le aziende che le producono e le carceri, cliente principale delle suddette aziende
Non troverete (e a questo punto non so se sia solo una leggenda metropolitana):
• la storia di Yeezus in cassettina, un’esclusiva Urban Outfitters che fregandosene del diritto di autore decise di creare una versione del disco che prima non esisteva. Un fan la portò da Kanye, gli disse: “Ehi me la firmi?”, lui rimase stupito, non aveva mai fatto una cassettina di Yeezus. Quando scoprì la verità anziché arrabbiarsi ne fu felice e disse: “Ok UO, puoi farlo”. Una bella storia.
Ora, in Italia sono sicuro che il livello di attenzione tecnologica sia diverso. Ma visto che non sono una persona - troppo - arrogante, ho deciso di chiedere a chi queste cose le vive o le ha vissute sulla propria pelle.
Così ho contattato Fabrizio Bruno, vice-presidente di 232 APS. Il suo nome è venuto fuori in seguito a un articolo su un live di Madman e Gemitaiz all’interno del Beccaria, il carcere minorile qui a Milano. Fabrizio, e chi lavora con lui, ha creato un laboratorio rap all’interno della struttura e secondo me ha senso farsi un giro sul loro sito per capire chi sono e cosa fanno. Lo lascio qui. Se non bastasse, mi sono fatto spiegare da lui chi è e cosa fa:
Mi chiamo Fabrizio Bruno sono un educatore professionale e un rapper, dal 2010 conduco il laboratorio rap all’interno dell’Istituto Penale Minorile “C. Beccaria” di Milano da questa esperienza hanno preso piede diversi laboratori nelle comunità penali e civili dal 2014 presso la comunità Kayros e dall’anno scorso presso la comunità “Le Tre Fontane”. Nel 2019 fondo con Ludovica Pirillo, Mattia Lista, Stefano Cesana e Lorenzo Carminati, l’Associazione di Promozione Sociale 232, con l’obiettivo di promuovere la diffusione dei laboratori come strumento educativo e ri-educativo in quante più realtà possibili. L’associazione ad oggi opera nelle scuole superiori e medie, nei centri di aggregazione giovanili, nelle carceri (oltre che al Beccaria a San Vittore) con un progetto di video interviste “Beccati” e in questo periodo di quarantena anche online, attraverso la diffusione quotidiana dei propri esercizi e con il CAG Nautilus via telematica con ragazzi e ragazze del comune di Cassina de Pecchi.“232” è il numero di telefono interno del laboratorio di musica dell’IPM Beccaria. La scelta di questo nome nasce dal fatto che nonostante l’attività si svolga in un carcere, i presenti si dimenticano dei confini e delle mura che li circondano, perdono la cognizione del tempo, e in questa condizione di sospensione, presi dalla passione comune per la musica, non sentono squillare il telefono strumento che li riporta alla realtà.
La realtà che mi appresto a descrivere è dunque quella del Beccaria e di San Vittore di Milano. Non è detto che le disposizioni in vigore in questi 2 istituti siano le stesse in tutti gli altri penitenziari, variano da contesto a contesto e da momento a momento.
Ciò che mi interessava, oltre che un discorso sociale, era anche un discorso meramente tecnico: come cazzo si ascolta la musica in carcere? Anche noi abbiamo degli strumenti pensati ad hoc per chi sta dentro? Come è vissuto un gesto per noi così quotidiano e familiare per chi la quotidianità e la familiarità ha dovuto, volente o nolente, reinventarla da zero?
Così, di seguito, vi lascio lo scambio via mail realizzato con Fabrizio, proprio così come è stato partorito. Il motivo? Non voglio metter mano con la mia indelicatezza a questo determinato tema. Indelicatezza, tra l’altro, che sicuramente traspare dalle mie domande, quindi anche in una sorta di mea culpa generale, espio i miei peccati senza editarmi.
Qual è il rapporto tra detenuti e musica?
La musica richiama in tutti noi uno spazio personale nel quale dar voce alle nostre passioni e ai nostri gusti, sia per chi l’ascolta, sia per chi la produce. Il rapporto tra musica e adolescenti è ancor più forte rispetto a quello degli adulti, perché si condisce di sogni, aspettative, modelli di appartenenza, mode, abitudini e via dicendo. Inoltre un fattore che sta via via sempre più prendendo piede nella cultura giovanile è il rapporto tra musica e video, piattaforme come Instagram, Tik Tok e Youtube promuovono sempre più questo connubio, potenziando l’aspetto visivo con quello musicale e viceversa. All’interno del carcere dunque avere la possibilità di riprodurre e di ascoltare la propria musica preferita è un privilegio e la tecnologia è venuta in aiuto. Ogni ragazzo al Beccaria ha la possibilità di avere un mp3, con la sola limitazione di non poter avere dispositivi in grado di registrare audio e riprodurre video (con uno schermo), o in alternativa chiavette USB. Su questi formati è possibile mettere le proprie canzoni preferite, basi musicali o videoclip che saranno riproducibili attaccandoli al televisore attraverso porte USB. In alternativa si accende il televisore su canali che danno in rotazione videoclip musicali, nella speranza che trasmettano il proprio artista preferito. Nella privazione della libera la possibilità di ascoltare quello che piace, acquista un valore del tutto nuovo, in quanto spazio e tempo di scelta personale. Focalizzandosi su questo aspetto, chiunque è portato a riflettere sui propri gusti, scoprendo quali sono le canzoni che ci aiutano a rilassarci o ci innervosiscono, che richiamano a ricordi di esperienze passate o a emozioni custodite nella nostra storia. Da questo sguardo su di sè, (nel momento in cui il carcere ne offre la possibilità con un laboratorio di musica), il ristretto ha la possibilità di tradurre in canzoni le sue esperienze, le sue emozioni e anche i suoi gusti, diventando attore protagonista della sua libreria musicale.
Dilemma filosofico se la musica influenza o meno i comportamenti delle persone, soprattutto quando si parla di rap si riflette molto sul tema delle sostanze, del machismo e della delinquenza. Per la mia personalissima esperienza non credo che la musica spinga ad agire comportamenti particolari, credo che invece ci faccia sentire meno soli nelle nostre scelte e ci aiuti a capire il perché le facciamo. Non legittima in sostanza, ma sostiene e a volte accompagna verso fantasie che la realtà impedisce.
Quali sono i mezzi disponibili a chi sconta la propria pena di ascoltare musica? Secondo la tua esperienza, com'è cambiata nel tempo la possibilità di ascolto per i detenuti? (Per esempio nel video che ti ho linkato, si dice che negli States fino a qualche tempo fa l'unico formato disponibile era quello delle cassettine, fino ad arrivare al punto che le carceri erano praticamente il più grande mercato per i produttori di audio-tape).
Il mezzo più diffuso è l’mp3, seguito dal televisore. La radio è uno strumento che non ho mai praticamente visto al Beccaria, a San Vittore più frequentemente. Negli ultimi 10 anni oltre ai mezzi di riproduzione a disposizione, è cambiato di gran lunga il ruolo dell’ascoltatore, sempre più esigente, sempre più affamato e di conseguenza è cambiato anche il mercato discografico, sempre più hit, canzoni più brevi, distribuzione su tutte le piattaforme digitali. Youtube e Spotify attraverso la finestra di Instagram hanno dato accesso a chiunque a qualunque cosa, aumentando la possibilità di scelta dell’ascoltatore, ed è per questo che ritrovarsi in carcere dall’oggi al domani senza più avere accesso a queste piattaforme genera delle piccole crisi. 10 anni fa i brani che ascoltavano i ragazzi, o quanto meno quello che mi dicevano, erano brani con una certa storia, magari usciti 10 anni prima, brani che nel corso del tempo erano rimasti come pietre miliari di un genere particolare. Oggi capita sempre più spesso che il brano preferito, sia quello uscito qualche mese prima. Nei laboratori della 232 nelle scuole chiediamo agli studenti e alle studentesse di scegliere un brano che li rappresenti e in un numero sempre più crescente di casi ci dicono: “posso prendere il cellulare che devo sceglierlo su Spotify”. Non voglio generalizzare, ma accade con sempre più frequenza, se prima ci si affezionava a un brano, magari anche idealizzandolo, oggi invece la velocità di uscita dei brani e l’accesso illimitato incide sulla memoria dei nostri gusti.
Come funziona un laboratorio sul rap, qual è il suo scopo?
Il suo scopo è offrire uno spazio di espressione e rielaborazione dei propri pensieri, delle proprie emozioni e della propria vita. L’arte, attraverso il canale del rap, rende tutto più facile, abbassando le barriere e rendendo il raccontarsi un esercizio a tratti divertente a tratti profondo. Tante volte i ragazzi ci dicono “quello che ho scritto in questa canzone, non ero mai riuscito a dirlo”, questo perché il rap e la dimensione artistica rendono “commestibile” quello che sogniamo e che proviamo, permettendoci di renderlo reale attraverso una canzone.
In linea di massima il laboratorio funziona a partire dalla creazione di un gruppo di lavoro e di un setting accogliente, nel quale ciascuno possa sentirsi libero di sperimentare ed esprimersi (lavoro che prende forma col tempo grazie alle professionalità degli operatori della 232 educatori ed educatrici professionali e psicologi). L’attività nel concreto si svolge in una prima fase di esercizi di scrittura, piccoli giochi e sfide in gruppi o individualmente che servono a migliorare la nostra conoscenza della lingua italiana e di conseguenza ad avere più possibilità nello scrivere strofe e rime. La seconda parte si concentra invece sui testi prodotti dai ragazzi, si provano i brani, si scelgono le basi, si sistemano le barre. Partendo dalla scrittura collettiva e/o individuale, i giovani scoprono come si registra un brano, incidendo le loro canzoni e una volta prodotta la loro canzone li accompagniamo verso un’esibizione (sì, per i nostri spettacoli li portiamo anche fuori dal carcere e/o dalle comunità).
Qual è stata la risposta agli eventi live (cfr. Mad e Gem) all'interno della struttura?
Gli eventi all’interno del Beccaria sono condizionati dal rispetto di determinate regole, per cui per i ragazzi è sicuramente un’esperienza significativa, tuttavia il non potersi alzare dal posto se non alla fine per un saluto veloce con l’artista, i tempi stretti e il dover svolgere il tutto secondo le procedure di sicurezza disposte dall’istituto e dalla polizia penitenziaria, rendono l’evento limitante. Queste sono le osservazioni che emergono più spesso sondando le impressioni dei ragazzi nel post eventi.
L’eterogeneità del gruppo, ragazzi di nazionalità e di gusti musicali diversi, rende altrettanto complicato raggiungere tutti alla stessa maniera, alcuni ragazzi, non conoscono gli artisti che vengono al Beccaria, ma ne apprezzano la qualità durante le performance live. Il nostro obiettivo è far scoprire a tutti indistintamente la bellezza che c’è nel partecipare a un concerto, nel capire come si organizza, portando rappresentanti della scena rap italiana sul palco, per regalare ai ragazzi la migliore esperienza possibile. Credo che la percentuale di ragazzi che sia stata a un concerto (togliendo le ospitate nelle discoteche) si aggiri tra il 5 e il 10%.
Può essere la musica un mezzo per il re-inserimento in società? Per esempio l'associazione Antigone ha seguito una band che ha alle spalle un mini tour, proprio a partire da una struttura detentiva.
La musica lo è: sia per quanto riguarda la possibilità di costruire delle carriere artistiche, sia per quanto riguarda la ricostruzione dello strappo che c’è stato con la società. Nei nostri spettacoli “Hip Hop dietro le sbarre” raccontiamo l’origine della cultura Hip Hop attraverso le performance di artisti emergenti e professionisti nelle varie discipline (breaking, mcing, djing, beatboxing, writing). Questi eventi ci permettono di far incontrare al ragazzo la collettività e di risarcire in qualche modo attraverso l’arte il danno che è stato fatto. L’artista per essere tale necessita di uscire da sé e valutare il suo prodotto, questo aspetto va a lavorare sull’empatia ed è su questa abilità di mettersi nei panni degli altri che a volte si basa il discrimine, sul commettere o meno un reato. Consapevoli che il riuscire a ritagliarsi una carriera nel mondo della musica richieda talento, fortuna e una grande caparbietà, non illudiamo i nostri ragazzi, infatti spieghiamo che in una fase come quella dell’adolescenza, è doveroso e legittimo sognare, ma senza che questo diventi un’ossessione. Investire nell’arte, induce la persona a occupare tempo e energie nel migliorarsi, permette di costruire una scala di valori personali su quanto vale il nostro tempo e i nostri comportamenti. Per farla breve se sogno di diventare un rapper, ma passo tutto il giorno a giocare all’Xbox forse la carriera musicale non è proprio tra le mie priorità.
In che modo il rap può aiutare a veicolare determinate istanze e/o messaggi?
Essendo il genere musicale più facile al mondo ed essendo per questo accessibile a tutti, il rap offre un panorama di brani e di messaggi di ogni tipo. Dai testi impegnati di denuncia sociale al gangsta rap, dagli incastri metrici elaborati alle parole ripetute in loop. La sua semplicità è la sua forza (tanti artisti compongono liriche elaborate e ricercatissime ma in linea di massima la direttività è stato ciò che ha reso il rap così famoso), purtroppo anche il suo limite. Non essendoci più, come negli anni delle posse, un movimento con delle regole e con dei criteri, oggi fare rap vuol dire tutto e niente, per certi versi è una versione con più rime del pop, per altri è il cantare su basi dance. Il rap è portare di messaggi e di istanze, tuttavia la cassa di risonanza di questi messaggi è nelle mani degli ascoltatori di oggi e di domani. Gli stessi artisti emergenti, anche diversi ragazzi che seguiamo, nel tentativo di rincorrere il successo, sono disposti a dire di tutto, attirando così l’attenzione su di sé. Le views, gli streaming, i follower aumentano la diffusione o meno di un artista e con esso dei temi di cui si fa portavoce. Come dicevo prima con la scusa dell’arte si abbassano le difese, nel bene e nel male, e sotto il velo dell’opera artistica si nasconde di tutto. Il rap nasce nei quartieri più poveri, da ragazzi e ragazze con pochissime possibilità, per cui tradirei i suoi valori dicendo questo non si può dire e questo sì (e non saprei neanche da cosa iniziare), è nelle mani del pubblico la diffusione o meno di particolari istante. Quindi ascolta consapevolmente.
Passare dal buffet di Spotify - o dall’ascolto passivo di ritornelli su Instagram Music e/o Tik Tok - a 8gb, dev’essere di certo un bel cambio di abitudini. Off the Records, la mia curiosità mi ha spinto a cercare un’estetica anche in questo racconto e mi sono fatto mandare un supporto tipo sul quale un ragazzo, al Beccaria, ascolta la propria musica.
”Sono i genitori, o siamo noi educatori”, mi racconta Fabrizio, “a procurare la musica ai ragazzi. Solitamente mi danno una lista che viene caricata su una memory card da 8gb. Alla stazione di Bisceglie c’è un piccolo rivenditore di apparecchi elettronici, noi è lì che ci riforniamo, fornendo dunque ai ragazzi questi mp3, che non mi pento di definire scrausi”
Per intenderci, i lettori mp3 di cui parliamo, sono questi:
L’ultima domanda fatta a Fabrizio, in realtà, riguardava più le persone che stanno fuori dalle strutture detentive e ascoltano rap, piuttosto che quelle che invece sono soggetto di questo articolo. La motivazione è molto semplice: nelle ore in cui stavo sentendo Fabrizio, Massimo Pericolo faceva una storia su Instagram, ripresa da quelle che potremmo definire le due testate principali del “settore”: Esse Magazine e Noisey.
Il discorso delle carceri in Italia è a un livello davvero preistorico, ma il me illuso si aspettava che almeno dei ragazzini sotto la maggiore età avessero consapevolezza di quanto disumano possa essere il carcere. Purtroppo non era così e scorrendo i commenti mi sono trovato in quello che probabilmente era il sogno erotico di Marco Travaglio. Tutta gente che gridava “alla gogna”. Presa coscienza di ciò, ho pensato che piuttosto che partire con l’ennesimo rant - cosa che ho già fatto nelle mie storie tra l’altro - avesse senso sentire Massimo e capire come invece lui si è vissuto, nei mesi passati dentro, il rapporto con la musica.
Così ho chiesto a Koki - una delle due teste dietro Pluggers - di girargli le mie domande su Whatsapp. Purtroppo per voi Koki ha un Android di non so che tipo, ma vi lascio qui gli screenshot, perché mi sembrerebbe di fare un torto a qualcuno privarvi di quanto segue.
P.S: Contiene un pratico consiglio su come bere consapevolmente in quarantena
P.P.S: All’interno di questo scambio vengo definito giornalista. Spero non lo faccia mai più nessuno in vita mia.
Buona lettura.
Ringrazio di cuore Koki per lo sbatti.
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E questa era una puntata un po’ diversa di PAPER BOI. Avevo una curiosità, me la sono tolta, spero che possa interessare anche voi e di aver esaurito tutte le possibile domande che un essere umano ignorante come me potesse farsi. Quella che viene potrebbe essere una settimana molto importante per questa newsletter. Ricordate lo spoiler alla fine dello scorso episodio? Bene, ci siamo quasi.
Vi ricordo che potete seguirmi su Instagram e condividere questa newsletter con le persone che amate, ma soprattutto quelle che odiate. A presto.