Earl è un simbolo
Una puntata su Earl perché suona a Milano e se non ci vai sei un bobaz (un post di un rapper X su FB nel 2010)
Ueilà bentornati. Come state? Io malissimo, ho preso la pioggia a un concerto sabato e questo mi ha portato ad avere la febbre e la tosse. Che tristezza. Sono qua per un motivo speciale, ma ve lo spiego bene nel corpo della mail che farlo in corsivo mi sembra inelegante. Del resto ho 30 anni e non ho mai chiamato nessuno amiö, forse si può dire che io non abbia davvero vissuto? Può darsi.
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A un certo punto siamo dovuti tutti scendere a patti con il rap. Non parlo - fortunatamente - di me, perché ho avuto quest’incidente long time ago e il fatto che la mia vita dipendesse da dei tipi che parlano di una vita non mia in rima me l’ero messa via già da tanto tempo, però dico tutte le persone che tendenzialmente mai avrebbero creduto che ci sarebbero cascate. Probabilmente non parlo neanche di voi, tranquilli, non è un attacco personale.
C’è un momento, almeno per la mia generazione, in cui secondo me abbiamo tutti deciso che fosse ok il rap, ed è stato il momento in cui è uscita la Odd Future.
Avevo 16 anni (appena compiuti) quando uscì questo video e ricordo proprio di aver pensato: “Ah, ma allora il rap non parla solo di cose che non vivrò mai”.
Ora, è ovviamente l’esagerazione di un adolescente, unito al gusto del creepy e all’ironia scema di un bambino che di un adulto ha solo qualche pelo e l’odore sgradevole, però ecco, se devo pensare ad Earl penso a loro che si fanno un frullato di solo Dio sa cosa e poi sanguinano in giro per la città. Legato a quell’uscita, quell’immaginario, quel disco, c’è proprio la storia di ogni adolescente proto-borghese che si rispetti: la mamma scopre (incredibilmente) che il figlio si droga, si dispera, lo manda in collegio in Samoa, Earl sparisce.
Per me Earl è stato il primo rapper a raccontare di un disagio adolescenziale in cui potessi rivedermi (quasi) al 100%, sia per un fattore anagrafico (anche lui ha compiuto 30 anni, nel giorno del compleanno di mia madre, tra l’altro), sia per una questione di gusti e di background (che forse si riflette anche nel fattore anagrafico): erano gli stessi i vestiti che ci piacevano, le cose stupide da fare che ci piacevano, i rapper come modelli che ci ascoltavamo etc etc.
Ne avevo già scritto in queste pagine, Earl a un certo punto è sparito, io per un sacco di anni ho continuato a definirlo “il mio rapper preferito” (o uno dei), poi per forza di cose la vita si è messa tra me e le convinzioni e ha fatto sì che dovessi optare per altri nomi. Nel frattempo, però, Earl è tornato, ha fatto un figlio, ha fatto 10 anni di carriera, ha portato una quantità di inediti solo live che non esistono da nessuna parte se non appunto registrati da qualche buon samaritano e caricati online, che forse supera in qualche modo la sua discografia e si è ricollocato in un nuovo posto, creato ad hoc. Nel frattempo ha suonato al Primavera, è uscito dalla Odd Future (posto che non esiste più) e tutta un’altra serie di cose che ci fanno sentire adulti e non più adolescenti.
Earl ha rifuggito la fama, dice che fra 10 anni vuole vedersi in una fattoria perché “bella la musica, ma cosa facciamo di concreto?” (lo ha detto davvero, lo scorso anno, a Rolling Stone US) e quando dico che è un simbolo - l’ho scritto nel titolo - lo dico per queste ragioni.
In apertura inizialmente avevo usato un termine (“hipster”) che ha cambiato così tante volte significato che non so più come gestirlo, quindi l’ho cancellato e ho pensato che avremmo dovuto usarne un altro, per non rischiare di essere offensivi. Ma Earl - con tutto che ha dovuto affrontare dei problemi nei quali ci piace rivederci solo per il nostro gusto di rendere più tragica una vita tutto sommato dignitosa - potrebbe essere esattamente noi, che ci cibiamo di status e lavori creativi in una città non nostra e che in qualche modo sgomitiamo per convincere i nostri genitori che siamo ok, che sono loro che non capiscono, per non ammettere in realtà che siamo noi a non vedere.
Dargen diceva quella cosa sul rap del dire cose che non pensi su una musica non tua, tutto bello, una grande verità, per me Earl è stato uno dei primi a dire delle cose che pensava fin troppo nel profondo, su una musica che finalmente era nostra. Una sorta di Joan Didion, però adolescente, scema, con il gusto dell’orrido e una mamma controlling.
Non mi è mai capitato di vederlo live, quindi quando a due passi dal Bar Rondò, uno di quei bar in cui fingiamo di non essere dei pretenziosi e ci facciamo andare bene l’idea di bere dei gin tonic che il nostro fisico non regge più, Carlo Pastore mi ha detto che avrebbe fatto una serie di concerti sulla fine dell’estate sotto l’effige di MiAmi e Cuori Impavidi e che tra questi concerti ci sarebbe stato Earl Sweatshirt, gli ho detto subito “facciamo qualcosa”.
Ora, non so cosa fosse quel “qualcosa” che si aspettava Carlo, sono bravissimo a creare aspettative giganti, altrettanto bravo - se non addirittura di più - a deluderlo, però mi sembrava un po’ un’infamata non omaggiare Earl che viene in città senza dirgli che per me è stato mega importante (non credo leggerà un articolo sconclusionato in italiano, nel caso Earl, spero che nulla di tutto ciò ti offenda, tvb, davvero o come si dice oggi, for real).
Se non hai mai ascoltato Earl, o hai ascoltato solo “Doris” una volta perché avevi visto quel video di Tyler a Milano su un Van con una maglia prototipo Nike che è più la maglia dell’Atalanta che quella dell’Inter, mi sembra giusto che tu in qualche modo venga ad ascoltare al Magnolia questo piccolo nerd dal passato tortuoso. Se ti spaventa non ascoltarlo da dieci anni, vuol dire che non hai letto bene quello che ho scritto fino ad adesso, ma non preoccuparti, un’altra cosa di noi creativi pretenziosi è fingere di avere l’ADHD, avrei fatto lo stesso, la famosa “lettura americana”: il tipo suona spesso brani inediti, che ci sta che tu non sappia. Puoi vivertela tutta come se fosse un listening party (senza le voci sotto) in cui a un certo punto fa quella hit che ti ricorda i tempi dell’università prima che la droppassi definitivamente.
Ora che Supreme è passato da giovane promessa ai tempi dell’Odd Future alle due fasi successive che descriveva Arbasino, accelerando sull’ultima grazie anche a personaggi come Fedez nel 2016, ora che i 5 panel non vanno più di moda, ora che stare a petto nudo è da babbi se sei skinny come uno skater ma è ok se sei tutto palestrato e tatuato, ora che non puoi più allacciarti i pantaloni con un laccio delle scarpe, tornare a sentire Earl può essere una sorta di grido di liberazione. Ora lavori in Deloitte, lo so, è andata così, torna a pensare a quando vivevi con tre coinquilini e vi facevate le cannette. Eri più felice? Te lo dico io, sì.
Earl suona al Magnolia domani, 11 settembre, qui trovi i biglietti, in apertura ci sono Pufuleti e Black Noi$e, che ti consiglio di ascoltare non fosse altro che perché nel suo ultimo disco “R.I.P. Satana” c’è un brano chiamato “Shiva” e finalmente potrai far felice il tuo cuginetto quando ti chiederà se ascolti Shiva.
Ci vediamo sottopalco.
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Questa era Paper Boi, non usciva da un sacco di tempo (mi scuso). Per chi non mi conoscesse sono Tommaso Naccari, e se per Dargen il rap è dire cose che non pensi su una musica non tua, per me le newsletter sono più o meno la stessa cosa, solo un po’ più confusa. Vi voglio bene, potete iscrivervi come no, prometto che torno presto.
<3
🫶