Ciao a tutti, questa è Paper Boi, io sono Tommaso Naccari. Ieri - come saprete - è uscito il nuovo disco di Gué: “Tropico del Capricorno”. Non è un classico disco del rapper, qui provo a raccontare cosa mi ha lasciato dopo un ascolto.
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Mentre arrivo a Linate a un’ora del mattino che solitamente - per me - coincide con almeno altre 5 ore di sonno davanti, noto su uno stand dell’edicola una foto che ritrae Sorrentino e Gué. Sono seduti su due divani, entrambi abbastanza svaccati, a formare una “elle” su più piani. La forma Gué con il busto e le gambe appoggiate su un tavolino, la formano i divani, la forma Sorrentino appoggiando la sua gamba sinistra sulla gamba destra. “La strana coppia”, titola il Venerdì di Repubblica per presentare l’analisi con annessa intervista del regista all’ultimo disco del rapper. L’autore de “La Grande Bellezza” (si cita il più famoso in questa formula, no?) definisce di essere ossessionato da “Tropico del Capricorno” e da lì parte a parlare dell’ironia, della libertà e di tutta una serie di temi che analizzano l’ultima fatica di Gué.
È uno scambio suggestivo, perché niente rende migliore un’intervista di un intervistatore che mette a proprio agio l’intervistato, ancora meglio se l’intervistato ha quasi più voglia dell’intervistatore di fare domande.
L’intervista unita a quella che per me è l’alba, mi porta a salire sull’aereo in un mood che non saprei definire, probabilmente in un qualche stato di trance che mi porta a entrare fin da subito dentro “Tropico del Capricorno”.
Mentre Gué omaggia i Beastie Boys e parla della sua depressione, il vuoto nella pancia mi comunica che stiamo atterrando, seguito poco dopo dall’accensione della spia della cintura che, da bravo chierichetto, non ho mai tolto.
”Tropico del Capricorno” è forse, per chi scrive, il primo concept album di Gué. Probabilmente non gli sentiremo dare questa definizione, addirittura potremmo sentirlo respingerla, in quel costante bilico tra il volersi riconoscere la scrittura sorrentiniana (non a caso) e il voler comunque rimanere rapper, poco addomesticato, poco avvezzo al parlare di massimi sistemi - cosa che comunque fa, tra le righe, senza mai esplicitarlo.
Per me, questo disco, è un incontro tra The Weeknd e “Meno di Zero” di Bret Easton Ellis, non a caso è un disco anni ‘80, in qualche modo (lo è anche “Acqua e Sapone” degli Stadio, per esempio, così come lo sono le Gazelle - che tornano come scarpe commercializzate per il pubblico e non per gli atleti nel ‘79, e lo è la 808 Roland, sul cui beat Gué sogna di andarsene).
È un disco in cui Gué è Clay, il protagonista del romanzo di Ellis che nel film è interpretato da Robert Downey Jr. È il narratore, è nichilista, se vuole qualcosa se la prende. Sta guidando in macchina, per le strade di LA (anche se nell’intervista col regista la odia, definendola piena di tossici fino alle 22 che vanno a correre alle 6 di mattina).
È un viaggio in macchina, una decappottabile, tra i luoghi di perdizione che se per tutti sarebbero adrenalina, per Gué diventano routine. In questo viaggio, incontra personaggi che seguono per pochi chilometri il rapper nel suo viaggio: lo esplicita in qualche modo Ele A, che racconta di essere alla fermata del bus (e continuando un po’ la legacy del disco, citando una serie infinita di ambientazioni anni ‘90, visto lo stacco generazionale, da Biggie e Forrest Gump).
Per tutto il disco si trascina un senso di noia che Gué fortifica con la sua parlata quasi sbiascicata, tutto ciò che era stato preannunciato anche dal titolo, che cita il sequel del romanzo del “Tropico del Cancro”, è sì benzina per Gué - i locali, la bella vita - ma è in qualche modo anche la routine. Come i protagonisti annoiati del romanzo di Ellis, se Gué vuole qualcosa se la prende, ma la soddisfazione di quel raggiungimento è vano ed evanescente, dura pochi secondi.
È un disco in cui Gué semplifica di molto il suo vocabolario, descrivendo un modo impasticcato e in fissa con i brand (che in Meno di Zero erano i Ray-Ban, qua diventano orologi e occhiali da boutique).
”Vorrei mollare tutto, ma poi penso: "Tutto cosa?"“
Come se fosse una lunga nottata, sul finire del disco la benzina per proseguire questo viaggio è data dall’alta concentrazione di featuring, che proprio come in un viaggio in macchina, vengono messi in posizioni che non sono le più comode per loro o se non altro le più attese: Geolier viene messo a cantare, Ernia fa un ritornello à la Tormento, mentre Tormento lascia una strofa, con Chiello Gué realizza un brano che mi porta ancora più convintamente a LA o comunque in California, un brano che sembra prendere gli insegnamenti di gruppi come i Bad Religion o i Descendents e portarli nel mood black uptempo di (quasi) tutto il disco, che va in contrasto con la malinconia della rappata di cui sopra.
È un disco che ha molto senso nella sua interezza, che fin da “Oh Mamma Mia” mi lascia addosso un buonce da struscio che rimane per tutto il disco. Ci sono i momenti in cui in qualche modo si esce dalla peccaminosità del club, ma per entrare in quella dei cocktail bar o della macchina guidata con il pilota automatico a velocità di crociera, illuminato da luci al neon.
Se dovessi scegliere degli highlights, sceglierei “Akrapovic”, “Le Tipe” e “Astronauta”, ma che continuo a pensare che non possano essere tolte dal posto in cui sono.
Un disco che è un viaggio, nel vero senso della parola.
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L'unica critica che mi viene da fare è che sia un album dove a livello di scrittura c'è vil Guè meno ispirato dai tempi di Sinatra (almeno). Glielo perdono in primis perché Guè duole dirlo ma anche col pilota automatico si sente che è un fuoriclasse nel suo campo e poi perché per quanto mi riguarda sto album suona veramente di cristo.