Quello che segue è un articolo inizialmente pubblicato sul numero zero dei cartacei di Outpump, per intenderci quello che tra le altre cose aveva Gué in copertina. Non aveva mai visto la luce sul web, era solo un preziosissimo pezzo di carta, fino ad oggi. Non che questo mi dispiacesse, ma in pratica è una delle cose migliori che ritengo di aver scritto in questi anni (scritto prima che Kanye dicesse che alla fine Hitler non è così male e che Kendrick facesse uscire il suo ultimo disco), per cui ci tenevo che i miei fratelli di Paper Boi avessero la possibilità di leggere quanto segue.
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Quando ho iniziato a pensare alle idee da mettere insieme per scrivere quanto seguirà, era un momento molto particolare della mia vita, che mi aveva portato - per circostanze che non andrò a spiegare, ma che in parte saranno all’interno di questa disamina - a pensare di voler approfondire quel lato “spirituale” della mia persona. Sentivo una chiamata, non che volessi farmi prete, ma sentivo che qualcuno mi stava tirando una giacchetta metafisica, lanciandomi segnali e chiedendo, se non altro, di essere ascoltato. La natura di questo pezzo, da allora, è cambiata molte volte, perché molte volte è cambiato il mio rapporto con chi era - per rimanere in metafora - dall’altra parte della cornetta. Inizialmente quando ho proposto - e accettato la sfida con me stesso - l’idea era di cristallizzare i miei ascolti di quel periodo, alla ricerca di messaggi, di illuminazioni. Ho capito che stavo cercando, per chissà quale ragione, di percorrere ad libitum una presunta via di Damasco musicale fatta di playlist e riproduzioni casuali, tra le altre cose, con la speranza che qualcosa mi parlasse. I messaggi non mi stavano arrivando, li stavo cercando. Volevo metterli nero su bianco, per poi poter ridere di me stesso una volta uscito da questa sorta di delirio mistico.
Da allora sono passati diversi mesi, come sempre nonostante le ottime premesse mi sono ridotto all’ultimo nello scrivere questo pezzo, nel frattempo ho perso un computer, ne ho acquisito un altro che speravo potesse essere ispirazione e si sta rivelando invece ostacolo e al momento ho 35 tab di Chrome aperte, alla disperata ricerca di altre ispirazioni (più o meno celestiali) che mi aiutino a comprendere cosa sto cercando e maledicendomi di non aver comprato una stampante e di non essere ora sommerso di fogli e ricerche che avrei sottolineato come un folle e mi avrebbero certamente aiutato a rimandare ancora un po’ la stesura di tutto ciò, trovando nuove idee, aggiungendo confusione e regalando però nuove chiavi di lettura alla mia ricerca finale.
La domanda base è una sola: “Può il rap, il genere dell’io, coesistere con un movimento di pensiero che - in teoria - ha nella comunità e nella condivisione e nell’annientamento dell’io come ego, il proprio scopo?”. Non è una domanda semplice, probabilmente è anche in parte errata, nelle basi, ma è la domanda che mi sono fatto io. La prima risposta è stata un’altra domanda: “Perché dovrebbe preoccuparsene?”. La seconda, però, è stata la musica.
Mentre mi ponevo queste domande, per esempio, è uscito Jesus is King, è morto DMX, Spotify mi ha riproposto fino alla nausea Praise The Lord in questo loop fatto di tecnologia e pigrizia per cui il rispetto nel non skipparla mai ha fatto pensare a un macchina (non troppo) intelligente che io volessi ascoltarla sempre. Quindi sì, non è necessario, Dio ce ne scampi, che il rap si interfacci alla religione. D’altro canto lo fa, lo fa sempre più spesso, sempre in modo più deciso. E al di là delle menate personali, delle montagne russe tra bestemmie e letture frenetiche che appaghino l’interiorità, fatte di rimembranze di lezioni di greco e speranza di alleviare il dolore, c’è un motivo significativo se alla fine, da 2Pac a Kanye West, God, The Lord, Jesus o Muhammad sono una parte fondamentale del mio genere preferito.
“Jesus Walks”
Una delle canzoni che più di ogni altra mi ha portato a pensare che questo connubio fosse perfetto, è stata Jesus Walks, il quarto singolo del primo disco di Kanye West, una delle canzoni più significative degli anni Zero per la critica, ma non solo. È stata una delle canzoni più importanti anche per me, nel periodo di ricerca dell’ispirazione e delle fonti, per il semplice fatto che l’aurea che la circonda ha quel sapore mistico di leggenda metropolitana e espiazione che rendono il brano ancor più affascinante di quanto non sia ad un orecchio semplice, vergine. Si dice che Jesus Walks sia, in qualche modo, la preghiere che Kanye West riserva a Dio per averlo salvato dall’incidente in macchina che per anni ha fatto sì che il rapper di Chicago venisse scherzato per la sua mandibola. Quella dell’incidente è una variabile fondamentale nella mia ricerca (è un incidente, non mio, che mi ha portato a rivalutare in chiave diversa quel periodo della mia vita), che ha fatto sì che concentrassi tutti i miei sforzi primari proprio sul capire Jesus Walks, il concetto di preghiera racchiuso in esso, il legame che hanno il rap e la religione. “My mama used to say only Jesus can save us” è la barra forse più centrale per la vita del pezzo.
Kanye era così in fissa con l’Hip Hop, che una volta disse che era la sua religione. […] Seduta nel parcheggio, non pensavo neanche al potenziale Grammy per Jesus Walks. […] C’è un verso, in quella canzone che dice “My Mama used to say only Jesus can save us”. Ora che ci penso, dicevo sempre qualcosa del genere. Guardavo la devastazione nel mondo e ripetevo a Kanye, o chiunque fosse a me vicino in quel momento, che solo Dio avrebbe potuto salvarci. Pensavo che in quei momenti neanche mi stesse ascoltando. Non ho mai insistito con Kanye perché pregasse Dio, non tanto quanto ho pregato usasse il preservativo, almeno.
Donda West with Karen Hunter, Raising Kanye, Pocket Books, New York 2007 (traduzione dell’autore, NDA). PP 140-141
Un’altra figura fondamentale, quasi religiosa, oltre Jesus, per l’appunto, nella vita di Kanye, è Donda, sua madre. Non è un caso che il vero valore religioso di Jesus Walks lo abbiamo attraverso le sue parole, più che quelle dell’autore:
Nel periodo in cui Kanye apriva i concerti di Usher, mancò una data. […] La crew era già partita, ma Kanye aveva tardato per stare con suo padre e prendere parte a un Youth Revival Service nel quale era coinvolto suo padre. I piani di Kanye erano di prendere l’aereo la mattina dopo, ma il brutto tempo glielo impedì. Così Kanye salì su un taxi, senza soldi a sufficienza, ma riuscendo a convincere il tassista a portarlo a due miglia dal concerto, così da provare a fare in tempo. Quando arrivò, Kanye era già sul palco. Kanye era due ore in ritardo. Aveva perso il proprio concerto e tra il pubblico c’erano un sacco di fan scontenti. Ma Usher, dimostrandosi il ragazzo fantastico che so essere, permise comunque a Kanye di fare un paio di pezzi e assistetti alla folla andare in visibilio. Ero contrariata dal fatto che Kanye fosse in ritardo, era una questione di rispetto, umano e lavorativo, c’era un contratto. Qualche tempo dopo, però, seppi che 300 persone fecero entrare Cristo nella loro vita, dopo che Kanye cantò Jesus Walks al Youth Revival a cui aveva partecipato con il padre. Era nel posto giusto al momento giusto.
Donda West with Karen Hunter, Raising Kanye, Pocket Books, New York 2007 (traduzione dell’autore, NDA). PP 138-139
Nella poca indulgenza che poi diventa illuminazione auto-assolutoria della madre, si vede tantissimo del Kanye che conosciamo tutt’ora, del Kanye che sbrocca per Trump, ma che giustifica il tutto con una serie di mosse portate avanti, a onor del vero, più da Kim che dal rapper di Chicago.
Ma più che della figura attuale di Kanye, è interessante andare ad analizzare questo brano che - a detta di Donda - ha convertito 300 ragazzi, trascinati dalla potenza del brano cantato dal vivo.
We at war
We at war with terrorism, racism
But most of all we at war with ourselves
L’incipit del brano, che probabilmente è la parte di testo che è più vicina alla forma preghiera, trova un senso nell’attualità con un parallelismo con una corrente che - grazie al recente risorgimento dell’estetica blerd, ovvero black nerd - sta vivendo una seconda giovinezza, probabilmente quella definitiva. Fa ridere immaginare lo stesso Kanye che da TMZ sostiene che la schiavitù sia in parte colpa di chi la ha subita, ma persino il video di Jesus Walks potrebbe essere una sorta di manifesto afrofuturista, in cui la natura si ribella al KKK, annullando di fatto sia il potere umano che ogni forma di discriminazione. Non è un caso che le due principali battaglie che Kanye imputa a questo “we” siano terrorismo e razzismo. Conoscendo il Kanye dell’epoca, da non confondere con quello attuale, è molto probabile che la guerra al terrorismo e quella al razzismo siano in realtà la stessa guerra. Kanye rappa questa canzone durante il periodo del governo Bush, lo stesso governo Bush a cui un anno e mezzo dopo “dedicherà”, per mezzo delle voci del duo The Legendary K.O. la canzone figlia di Gold Digger, George Bush doesn’t care about black people, canzone di protesta legata all’assenza in New Orleans della Casa Bianca dopo l’uragano Katrina.
Il Kanye che non mi vergogno di definire illuminato degli inizi, dunque, molto probabilmente inconsapevolmente, visto anche il titolo del disco e l’environment in cui cresce, vede in Jesus ciò che il suo collega Sun Ra vedeva nel potere immaginifico della fuga. Jesus è al contempo morfeico e reale, la forma di schiavitù che prima di tutte spera di abbattere Kanye è quella legata alla vita di strada. Vita che Kanye non ha vissuto e infatti, nonostante l’allusione in chiusura di seconda strofa, che sembra più un rimando a The Wire che storia di vita vera, nella seconda strofa passa al ruolo di narratore o meglio di intermediario. Invoca Dio e lo fa per hustlers, killers, murderers, drug dealers, even the scrippers. Gli ultimi.
Già in Jesus Walks, però, c’è in nuce tutto il rapporto tormentato di Kanye con la religione, quello che lo porterà prima a definirsi Dio e poi a servire messa anziché fare i concerti. In molti, nell’analisi del testo di questa canzone, vedono più che una preghiera di Kanye nei confronti di Gesù, un continuo parallelismo. Così come Gesù erra per il suo mondo, per educare, così finalmente fa Kanye, che dopo anni da back player, da produttore, decide di scendere in campo, in prima persona, di errare anche lui - questa volta però per la scena, cercando di sistemare ciò che non va. Non è un caso che ci siano riferimenti all’ipocrisia delle case discografiche, che fino ad allora non avevano creduto in lui come prima voce. Come racconta Matteo, Gesù cammina sulle acque. Solo Pietro è in grado di fare lo stesso, per un breve tratto, prima di mettere in dubbio la propria fede, cercando il “trucco”, finendo così per affondare, per non rimanere a galla. The only thing that I pray is that my feet don't fail me now. Kanye vorrebbe parlare con Dio, ma ha paura che non lo ascolti, ha paura quasi di averlo dimenticato. Così come Gesù, Kanye sa di aver bisogno di Dio per essere un leader. Di un mondo più corporeo, più terreno. Un conflitto che Kanye non è stato l’unico a sottolineare.
DMX, l’Anti-Cristo.
Non è un caso se, in qualche modo, la storia di DMX sia praticamente l’opposto di quella di Kanye.
Il mio nome è Earl Simmons. Sono nato il 18 dicembre del 1970, a Mount Vernon, New York, figlio unico di Arnett Simmons and Joe Barker. Ho sempre odiato il mio nome, mi è sempre suonato banale, e sfortunatamente non ho secondi nomi. Perché mia madre non mi abbia dato il nome di qualche tipo con cui sia uscita, non lo so. Sono sicuro ce ne fossero parecchi tra cui scegliere.
Earl Simmons with Smokey D. Fountaine, E.A.R.L., HarpersCollins Publisher, New York 2002 (Traduzione dell’autore, NDA) pag. 7
O ancora:
Non avevo paura di raccontare a mia madre dei miei furti. Non me ne vergognavo. Se fosse stata a casa una di quelle volte in cui varcavo la soglia tenendo in mano il portafoglio di qualcun altro, le avrei detto la verità. Avevo bisogno di soldi. Avevo fame. Probabilmente sarei risultato cattivo. O probabilmente sarebbe stata una lezione.
Earl Simmons with Smokey D. Fountaine, E.A.R.L., HarpersCollins Publisher, New York 2002 (Traduzione dell’autore, NDA) pag. 96
Se dunque Kanye West era sicuro, da figlio di una buona famiglia, con una madre insegnante, una zia precettrice ecclesiastica, protagonista con la sua musica di cene di Natale ricolme di parenti, di poter essere un leader, DMX sa di essere uno degli ultimi.
DMX è probabilmente il più grande rap cristiano che abbia mai calcato questo pianeta, ma, a differenza di Kanye, le sue preghiere sono ricolme di una patina così scura da portarlo a definirsi, velatamente, l’AntiCristo.
Damien è una delle mie tracce preferite del suo disco d’esordio, dal titolo abbastanza evocativo per il tema di cui stiamo trattando: It’s Dark and Hell it’s Hot. Come spesso accade nella produzione musicale di DMX, Damien è uno storytelling che vede come protagonista il rapper stesso. Se in Jesus Walks Kanye parlava con il figlio di Dio, qui Earl Simmons parla con l’angelo più bello del Paradiso, condannato alla sofferenza eterna. Lucifero. Non è un caso che colui che dal nome porta la luce sia la figura che DMX sente più vicina a sé stessa. Il nostro ha passato un’esistenza alla ricerca della famigerata luce in fondo al tunnel, il concetto di “Dark” e del suo corrispettivo opposto “Light” è fondamentale nella sua produzione, come vedremo presto.
Damien è Satana. Non è mai esplicitato, se non da un pitch che ha appunto del satanico, ma è chiaro che sia così. Nel film Il presagio del 1976 diretto da Richard Donner, Damien è il figlio di uno sciacallo che viene proposto in “cambio” del figlio nato morto a un diplomatico americano. Damien in pratica è l’Anticristo.
Se Kanye si sente Dio, dunque, DMX è più modesto non solo nell’estrazione sociale, ma anche nelle mire di immedesimazione. Earl Simmons - nella sua testa - altro non è che il Dottor Faust, che anziché per fame di sapere, decide di venire a patti con Satana per fame e basta. DMX non si vergogna pubblicamente della sua condotta, la giustifica appunto per fame. Ma ne soffre interiormente. In tutto ciò che fa di errato, X cerca una luce, ma sa benissimo che nella nebbia, la luce, non esiste.
The snake, the rat, the cat, the dog
How you gonna see him if you livin' in the fog?
In The Convo, il brano che compone con Damien il Tao della religiosità del primo disco di X, Earl prega Dio, ma lo fa senza la presunzione di essere un leader come Kanye. La particolarità che si nota è che, se Kanye sosteneva di poter essere il protagonista del passaggio delle Sacre Scritture in cui il figlio di Dio cammina sulle acqua, usando più volte l’espressione “Stand With Me”, quando fa riferimento al camminare, DMX, lo fa in modo ironico, ammettendo di aver imparato a peccare ancor prima di camminare. E quando, invece, parla del cammino di Dio, ne parla con la metafora della poetessa Margaret Fishback delle orme sulla sabbia. Ma se spesso, girandosi, DMX vede un altro paio di impronte che non sono le sue (occhio, le vede dietro, non al suo fianco come Kanye), molto spesso le impronte sulla sabbia sono solo quelle di Earl. Anche il ritornello risolleva tutti i dubbi: “Qualcuno bussa, dovrei farlo entrare?”.
“Faith”
Ridurre tutta la spiritualità del rap al cristianesimo è sicuramente un’opera fallace e parziale. Mi perdoneranno i lettori, ma ovviamente cercare di riassumere quasi 50 anni di operato musicale in poche pagine è un’impresa titanica, ha senso pertanto selezionare pochi ma significativi episodi e provare, allargando sul finale, a trarre delle conclusioni che non scontentino nessuno.
Nel pezzo di apertura, Jesus Walks, è stato tirato in ballo l’afrofuturismo. Sarebbe una bestemmia, per rimanere in tema, ridurre una corrente così importante a un episodio così sparuto a un riferimento per altro molto lontano, come quello della religione.
Pertanto mi preme riportare una citazione molto scientifica di uno dei testi cardine dell’afrofuturismo.
“La scoperta del codice del DNA, per esempio, riguarda il modo in cui puoi creare diverse specie di creature partendo dalle particelle più piccole e i loro componenti”, ha detto Karlheinz Stockhausen. “Per questo siamo tutti partecipi dello spirito all’età atomica. In musica, facciamo esattamente lo stesso”. Aprendo lo spazio di possibilità della scienza del Breakbeat, il dj, mixer e pioniere del rap Grandmaster Flash espande e approfondisce questa osservazione del ’71.
“Dopo che ho assunto il titolo [di Grandmaster Flash] sapevo che avrei dovuto iniziare a entrare in laboratorio, per così dire, e inventare nuove idee”. Per Flash, nell’81, andare in laboratorio significa trattare lo studio come un centro di ricerca per lo scomponendo del beat. Nel laboratorio, il Breakbeat viene isolato e replicato, diventando il DNA della psichedelica ritmica.
Kodwo Eshun, Più brillante del Sole, NERO, Roma 2021 pag. 15
Il concetto di creazione è fondamentale tanto per la musica rap quanto per la religione, e così per tutta un’altra serie di discipline che hanno la spiritualità come forza motrice. L’afrofuturismo, però, è fondamentale per capire in che modo oggi, un tema così radicale come la spiritualità, può sposarsi con il rap. In che modo un approccio così scientifico come la musica di Grandmaster Flash, padre putativo (o uno dei) del genere, può dar vita a della musica così ispirata, nel senso più biblico del termine.
In apertura ho citato Praise The Lord, una canzone che vede partecipare anche A$AP Rocky, forse l’uomo che ha la visione più strana della spiritualità nel rap odierno, ma che spiega come anche il “laboratorio” di Grandmaster Flash possa essere spirituale:
Fintanto che credi in qualcosa, in una forza superiore, non m’interessa se per te è Buddha, Dio, Allah, Gesù, non m’interessa se è un topo di nome Willard. Fintanto che credi in qualcosa, questo è ciò che conta. Non sono una persona religiosa, ma credo in Dio, lo prego ogni sera.
Dall’intervista di A$AP Rocky con MilkMade.com
Il concetto fondamentale alla base di questo passaggio di Rocky è un termine molto caro a un altro grande esponente del genere. Il termine è “faith”, il personaggio, l’avrete capito, è Kendrick Lamar.
Faith è una delle prime canzoni che io abbia mai sentito di Kendrick. Sarebbe riduttivo ridurre Kendrick a una sola canzone, non che farlo con Kanye o DMX sia stato più lusinghiero, ma visti i temi emersi, Kendrick è un personaggio che ha senso da analizzare nel qui e ora.
Eppure è singolare che una delle ultime canzoni di Kendrick prima dell’esplosione sia sulla fede. A un certo punto Kendrick parla con Dio, che gli parla con le stesse parole che, in un’intervista qualche anno più tardi, Lamar ammetterà di aver ricevuto in sogno da 2Pac. In Faith Dio vuole che viva e che sia benedetto per continuare con la sua musica, nel sogno 2Pac spingeva Kendrick a non mollare, per far sì che la sua poesia non morisse con lui. Non sarà un topo di nome Willard, ma Dio nella testa di Kendrick probabilmente non ha le sembianze di Dio.
In DAMN, la sua ultima fatica, Kendrick offre una visione più cinica e attuale del suo concetto di fede. Forse, in realtà, la visione più sincera. Prega, parla con Dio, ma sprona il suo amico che lo chiama comunicandogli della morte del figlio a combattere la violenza con la violenza.
Sulle prime veniamo conquistati da certe frasi folgoranti di Gesù. Ammettiamo, come le guardie incaricate di arrestarlo, che “mai un uomo ha parlato così!”. Poi passiamo a credere che sia resuscitato il terzo giorno e, perché no, nato da una vergine. Decidiamo di improntare tutta la nostra vita a questa folle credenza: che la Verità con la “V” maiuscola si è incarnata in Galilea duemila anni fa. Siamo orgogliosi di questa follia, perché non ci somiglia, perché facendola nostra sorprendiamo noi stessi e rinunciano a noi stessi, perché nessuno attorno a noi la condivide.
Emmanuele Carrere, Il Regno, Adelphi, Milano 2015, pag. 78
Il Regno è il libro che più di ogni altro ha dato il via alle domande che mi facevo in apertura, trascinandomi - non solo ma con buona colpa - in quella sorta di crisi mistica che oggi sembra un lontano (ma non troppo) ricordo. Eppure, nelle parole di Carrere, vedo un disegno che ben si sposa che quello che si è provato a tracciare qui.
Nelle due volte in cui si è citato l’afrofuturismo, si è parlato di una sorta di “rinuncia”. Non è letterale, e in conclusione con Kendrick vedremo perché, ma se non altro è una livella, come quella del famoso Totò. Con la religione si rinuncia a sé stessi. Sembra pensarlo DMX, meno Kanye che sembra anzi esaltarsi con la religione (fino a rinnegarla con No Church in The Wild e poi riabbracciarla con il Sunday Service), ma ha senso rinunciare a se stessi?
Per Kendrick no. Dopo il racconto della propria storia, quella di un bravo ragazzo in una città folle, Kendrick è passato a raccontare le proprie origini, abbracciando appieno le proprie origini. Poi, attraversato dal fascio di luce - andate a vedere il frame di copertina del video di HUMBLE se pensate che sia una metafora - ha deciso di farsi profeta più che narratore. Il profeta del futuro, o del presente, dunque, ha ancora la Faith degli inizi, ma è disilluso.
A breve dovrebbe arrivare un nuovo lavoro di Kendrick, chissà se lì dentro troveremo la definitiva risposta del giusto equilibrio tra Dio e il rap.
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Bel pippone eh? Fatemi sapere che ne pensate.