L’altro giorno mi è stato detto: “Ma perché fai le recensioni? Alla fine la cosa interessante di questo progetto della newsletter è quando parli dei cazzi tuoi, non parli di rap, ma poi parli di rap”. Ora, non so se effettivamente sia così per chiunque stia per leggere quanto segue, però ho pensato che effettivamente è vero. Alla fine ho tirato su questo spazio per mettere i pezzi che non potevo “vendere”*, quindi con un mio linguaggio (anche un po’ lascivo) e che in realtà non parlano di niente. Ovviamente è una reazione, faccio una cosa e per il periodo immediatamente successivo vorrei fare l’opposto, ma ho deciso di accogliere questo suggerimento.
* mi scuso per l’uso di questo verbo, ma non avrei saputo come altro dirlo.
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Oggi non avevo molta voglia di pensare a un titolo, per cui quello che vedete come oggetto della mail è letteralmente la prima frase che pronuncia Mac Miller nel suo brano “Therapy”, un brano che non mi ha mai fatto impazzire, ma che didascalicamente parla di ciò di cui vorrei parlare.
In questo periodo sto pensando di tornare dalla psicologa. Ci penso, più volte al giorno, anche perché in qualche modo la condivido con un mio amico - non nel senso che facciamo terapia di coppia, ma nel senso che è la stessa persona - che, come in tutte le cose, ha più costanza di quella che ho io: sfrutta più di me l’abbonamento in palestra, sfrutta più di me anche l’aiuto che potrebbe arrivare da questa persona o, in generale, dalla figura professionale. Eppure, ogni volta che penso: “Adesso le scrivo, non sarà certo offesa dal fatto che dopo circa quattro/cinque sedute io sia letteralmente sparito senza dare una reale spiegazione”. Non so se questa cosa di sentirsi in colpa per come si è trattata la psicologa avrebbe bisogno di un percorso terapeutico, infilandomi in un uroboro di problemi dai quali potrei non uscire mai. Ma ogni qualvolta io apro quella chat, ripenso al motivo per cui ho smesso di andare in quell’ambulatorio. Innanzitutto perché mi scazza raccontare a voce, in presa diretta, delle cose che ho vissuto. Probabilmente se avessi uno scambio epistolare con il/la mio/a terapeuta me la vivrei molto meglio. In secondo luogo perché la risposta a tutto ciò che raccontavo era una sorta di elogio nei miei confronti, condito da un po’ di accondiscendenza. Io pensavo (o speravo) di andare lì a sentirmi dire che ero una merda, eppure ricevo solo elogi. Tanto che ho iniziato a esagerare ciò che sentivo, arrivando a dire di sognare di ritrovarmi in una situazione uguale e inversa a Joan Didion solo per scrivere lo stesso libro con la stessa freddezza e ricevere in cambio un sorriso.
Perché ne parlo qui? Il discorso sulla terapia e la salute mentale è uno dei discorsi centrali del nostro tempo e, come è ovvio che sia, ha investito appieno anche il rap più mainstream. In una sorta di inversione di tendenza, uno degli stilemi è diventato il racconto della propria fragilità, anche qui uguale e opposto a quello che è lo stilema per eccellenza del genere, ovvero il winning loser, colui che prende la sua sfiga, qualunque essa sia, e ne fa un cavallo di battaglia. Il primo esempio che mi viene in mente è quello degli Outkast che fecero del loro essere poco più che dei contadini il loro punto di forza contro l’egemonia di NY e LA, in favore di ATL, una città che per chi scrive ha in più diverse cose, non solo il numero di lettere che compongono la sigla.
Così, tornando a noi, ogni tanto penso di tornare a intraprendere quello che sento definire in giro come un percorso, ma poi penso quello che in realtà è il motivo per cui ho iniziato a scrivere queste cose, senza sapere bene dove andare a parare, pensando solo di dare una botta di vita a questo venerdì sera (diffidate da chi elogia la cosiddetta movida milanese, finirete a rompervi il cazzo a casa come in qualsiasi altra città del mondo). Ho deciso di iniziare il tutto con una cit a Mac Miller perché è un periodo che sto ascoltando moltissimo “Doris” di Earl Sweatshirt. Ho deciso di mettere un punto perché mi piace che questa frase così, estrapolata dal contesto, sembri quella di uno schizofrenico. Dicevo: Earl è stato, nel periodo della sua uscita, uno dei miei rapper preferiti e - esclusi i mostri sacri - forse tutt’ora è così. È uno di quei rapper che per me è l’equivalente della pasta e broccoli di mia madre, quella sorta di comfort food in cui so che potrò tornare sempre e stare bene. La sua esplosione è capitata in un periodo che è stata la transizione dallo scaricare la musica all’averla già sul telefono. In quel periodo ho perso il filo con un sacco di cose, per esempio una marea di serie tv che seguivo scaricando alacremente puntata e sottotitoli la mattina dell’uscita e che poi non ho mai più terminato perché è arrivato l’equivalente audiovisivo di Spotify o Tidal, ovvero Netflix seguito a ruota dagli altri. Tutto questo per dire che dopo “Doris” e il disco successivo dal titolo lunghissimo in cui il nostro ammette di non uscire, non ho mai più davvero seguito Earl, perché è scomparso dai miei radar. Così, anche se “Some Rap Songs” è un disco che ho consumato in quelle settimane in cui è uscito, l’unico contatto che avevo con Earl, la percezione (perché poi in realtà guardando gli anni d’uscita dei suoi dischi non è mai scomparso così a lungo) è che non fosse presente perché aveva dei “mental issue”. Facendo ricerca scopro che questi problemi sono stati anche fisici, ma non è questo l’importante e non voglio fare una diagnosi di Earl.
Non ho mai ascoltato, invece, troppo Mac Miller. Eppure “Therapy” è un brano che nella sua semplicità mi è capitato di mettere su quando avevo bisogno di una presa bene dal gusto amaro. È un brano che ha una chiave di lettura della vita che è a un passo dall’essere bambinesca, ma che proprio per questa sua ingenuità e per la biografia di chi l’ha scritta e cantata, mi restituisce un ritratto abbastanza reale del mio pensiero sul cercare di stare bene.
Interfacciarmi con questi due giganti dell’avere gli sbatti è una cosa che mi aiuta a mettere nella giusta prospettiva quelli che sono i miei e mi fa pensare, molto spesso, quello che adesso sto per dire. Potrei argomentare lungamente, ma non lo farò, perché non voglio che diventi una lettura vera, ma piuttosto uno sfogo. È anche questo il motivo per cui nel sottotitolo, che non ho idea di quando qualcuno che legge via mail possa leggere, scrivo che sono vicino alla definitiva trasformazione in Vittorio F*ltri, perché sembra una boutade e ho bisogno di metterla nero su bianco così da capire se lo penso davvero o meno. Ecco, forse se davvero andassi da una psicologa non scriverei quanto segue.
Penso che, come in parte l’oroscopo, la psicologia sia, in parte, la religione della nostra generazione. Un qualcosa in cui abbiamo cieca fiducia, alla quale deleghiamo in parte o completamente i nostri sbatti, percependo come segnali chiari e decisi segnali che chiari e decisi non sono. Una sorta di manleva per la comprensione del mondo, qualcuno di più “in alto” (in un caso fisicamente, in un altro banalmente come competenze) di noi che si assume la responsabilità di capire cosa ci stia accadendo. Non c’è una critica, vorrei linkarvi un articolo su Kanye e DMX che ho scritto per il cartaceo di Outpump in cui parlo di come per un periodo sono “cascato” nel gioco mistico della religione, ma purtroppo non siamo nel metaverso e questo testo non è ancora uscito online, però mi leverebbe dalle spalle l’idea che stia parlando come se fossi il cervellone che ha capito il trucco. Mi mette ansia questa cosa di non interfacciarci con noi soli sui nostri problemi, so personal non sentitevi giudicati. Ma davvero, ogni volta che penso di avere uno sbatti e che dovrei parlarne con qualcuno, mi chiedo per quale motivo devo:
• rivivermi lo sbatti ri-raccontandolo ad alta voce
• sperare che qualcuno che è un perfetto sconosciuto possa capire cosa nel mio racconto romanzato è una percezione di me stesso e cosa è il reale e in che modo mi possa indirizzare a cercare la retta via.
So che è un discorso altamente superficiale, probabilmente, ma in questa sede non ho nessuna pretesa di profondità. Mi sembra che a volte sia semplicemente la via più facile, che parlarne in determinate sedi ti porti a pensare di aver affrontato davvero un certo tipo di problema, proprio come una preghiera ti può portare a pensare che sia stato fatto tutto il necessario, che non ti resti che pregare. E questa cosa mi mette ansia che esorcizzo così, davanti a una manciata di estranei che leggono.
Così è tutto il giorno che vago e palleggio tra Earl e Mac Miller pensando che se uno alla fine si è fatto crescere i rasta e l’altro ha fatto la fine che ha fatto, e i loro sbatti erano sbatti reali, il film di Castellitto ha un titolo che è una profonda cazzata e alla fine, se qualcuno si deve salvare, può farlo solo da solo.
Vi lascio il link a Therapy così chiudo “in bellezza”. Buon ascolto.
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Brutta cosa il venerdì sera. Potremmo risentirci molto presto, perché ho in mente di scrivere di Pusha e McDonald’s, magari la prossima volta che mangio un Filet O’ Fish. Questa puntata era anche un po’ per staccarmi dall’idea che parlo di cose che accadono nella musica rap italiana. L’ultima volta che è successo ho perso qualcosa come 30 iscritti. Un* psicolog* direbbe forse che mi autosaboto.
ci si salva da soli perché la terapia non è salvezza (forse è solo buttare una parvenza di salvezza nel game)