Quella che segue è la prima “puntata” (?) di PAPER BOI. In queste prime settimane invierò a cadenza irregolare testi su argomenti che mi hanno fatto pensare: “Cazzo, devo scriverne”. Quello che segue, per esempio, è un indelicato flusso di pensieri scritto sul tram per Kobe Bryant, maturato due giorni e adattato a questo formato. Buona lettura.
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Ieri, per ovvie ragioni, ho riascoltato Kobe Bryant di Lil Wayne. È una traccia secondaria del 2009, estratta da un mixtape, che dunque si trova solo su YouTube e per di più accompagnata da quei video che mostrano le migliori skill di un qualsivoglia sportivo, montate in una buia cameretta di chissà dove, magari Odessa, Texas.
Non c’è un vero motivo per il quale fosse necessario per me ascoltare quella canzone in quel determinato momento, nonostante io abbia scritto “per ovvie ragioni” la prima volta che ho comunicato di averlo fatto, ma ci sono situazioni in cui la razionalità è forse l’ultima delle abilità da mettere in ballo.
Finita di ascoltare, per non consumare tutti i dati che YouTube mi avrebbe consumato - vivo ancora nel 2005 e scrivo i messaggi abbreviati, per intenderci - anziché premere il tasto replay ho aperto Genius e ho scoperto una cosa che mi ha sconvolto.
Non sono mai stato un drago d’inglese, nelle sparute vacanze studio che ho fatto mi esprimevo cercando di imitare la parlata masticata dei film su Compton, prendendomi irrimediabilmente cazziate e lunghi discorsi di spiegazioni dagli insegnati. Quando scoprii la canzone Kobe Bryant imparai anche una versione di testo di fake english, con parti di testo completamente inventate e tra le tante cose, l’unica di cui ero sicuro avessi la soluzione corretta, era una barra sul finale, in cui Lil Wayne rappava: “Kobe Bryant aka MVme”. Intendevo, nel mio cervello, MOST VALUABLE ME, che poteva avere diversi piani di lettura: sia Wayne che Bryant sono stati nel prime della loro forma in un periodo tutto sommato coincidente, ma soprattutto la figura di Kobe è quella che ti spinge a tirare fuori il MOST VALUABLE YOURSELF.
Qui in Italia quel tipo di immaginario è stato completamente mutuato da Marco Montemagno (o Wanna Marchi) quindi non puoi essere uno di quelli che ha un libro di Kobe senza essere di conseguenza uno che mina bitcoin tutto il giorno guardandosi allo specchio per convincersi di essere il nuovo Steve Jobs. In America l’accezione del do it yourself è un po’ diversa - ed è il motivo per cui Kobe è un mito e Cristiano Ronaldo un rosicone, per esempio (non che una delle due sia una lettura sbagliata). Per questo immaginavo che “Kobe Bryant aka MVme” fosse la barra perfetta, tanto da aver pensato di tatuarmela: era breve, concisa, con più piani di lettura e riusciva a farti gasare anche se eri un alieno che non aveva mai sentito le parole Kobe Bryant.
Ieri su Genius ho scoperto che in realtà Wayne dice “Kobe Bryant aka Envy Me” e le cose che ho scoperto sono due: scriverei barre migliori di uno dei miei rapper preferiti, se solo rappassi, e che le certezze sono come un domino.
Oltre alle barre capite male, anche Kobe era una certezza. Lo era per mille ragioni: lo era perché era Los Angeles, lo era perché secondo mio padre (calabrese) era calabrese - così come lo sarebbe Bono degli U2 e altri mille nomi che ho dimenticato - perché anche quel fatto di aver visto spuntare i primi peli sulla propria faccia in Italia o di saper reggere uno scambio in italiano perfetto su Radio DeeJay rendeva quel mondo lontano un po’ più vicino, una certezza.
Non sono un grande fan del basket, nel senso che sono un italiano medio quindi calciofilo e gli altri sport sono un palliativo alla noia dell’assenza del primo. Seguo l’NBA perché mia madre lavora in banca e un giorno mi ha portato a casa una pre-pagata a mio nome con sopra il simbolo di Milwaukee, la squadra dove giocava un ragazzino che aveva un nome greco ma nelle fattezze poteva essere il mio rapper preferito.
Ma Kobe fa parte di alcuni simboli che trascendono lo sport e che nel modo silenzioso in cui si palesano i simboli mi ha sempre fatto sentir parte di qualcosa. In questo periodo mi è capitato di lavorare con una persona che per i giorni che hanno seguito il fatto in questione, ha vestito ogni giorno un paio di verso di Nike Mamba. Non c’è stato nessuno scambio, nessun “minchia che peso”, abbiamo capito entrambi il lutto da un gesto, e capirlo attraverso un paio di Nike Mamba mi ha fatto sentire - in qualche modo - un eletto.
Non ho molto da dire su Kobe, ho molto da dire su di me però. Sono felice che quel giorno di non so quanti anni fa io abbia capito “aka MVme” anziché “aka Envy me”, perché nessuna frase racchiude ciò che Kobe è per me, meglio di quella cosa lì. L’aurea di Kobe fa parte di un mondo che è fatto di determinati simboli che appunto sono silenziosi e vanno afferrati, in modo implicito. Los Angeles, i diss, il colore viola, le adidas prima, le Nike dopo. Pensare a Kobe mi fa pensare all’MVme, vedere un paio di Nike Mamba oggi mi fa sentire l’MVme. Ed è una magra consolazione, ma è pur sempre qualcosa.
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Ok, questo era solo un tentativo di provare le numerosissime funzioni di questa pagina bianca che mi si palesa davanti e che mi terrorizza non poco. Se avete suggerimenti o altro potete rispondere a questa mail o contattarmi in DM su Instagram come foste Tony Effe.
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