Ciao, scusate per off topic, ma mi girano le palle a elica da ieri sera e alla fine, in una scena rap che non lesina dall’usare la n-word come non avesse alcun valore, mi sembra giusto scrivere anche di questo. Buona lettura
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Ieri sera PSG-Basaksehir, l’ultima partita del gruppo H di Champions League, è stata interrotta dopo tredici minuti di gioco. “È stata interrotta” forse però non è l’espressione corretta: si è trattato più di uno sciopero improvvisato e autogestito dei calciatori che hanno deciso, collettivamente, di abbandonare il campo di gioco, dopo che il quarto uomo si era rivolto a Pierre Webo, ex giocatore e vice-allenatore dell’Istanbul Basaksehir, con un’espressione ritenuta discriminante.
La scena è confusa e il materiale televisivo che abbiamo a disposizione per farci un’idea riesce a restituirci solo uno spezzone finale della discussione. Vediamo l’arbitro avvicinarsi verso la panchina del Basaksehir grattandosi la fronte. Webo gli si avvicina con la mascherina abbassata e gli chiede perché il quarto uomo si è riferito a lui usando la n-word. Il quarto uomo è accanto a lui e lo indica, l’arbitro tira fuori il cartellino rosso. Webo continua a porre la stessa domanda al quarto uomo, andandogli sotto, puntandogli il dito contro. È una scena potente: abbiamo visto altre volte episodi di razzismo in campo, ma mai abbiamo potuto vedere la persona insultata poter avere un confronto diretto con gli lanciato l’offesa. Il fatto che quest’ultima fosse un ufficiale di gara aumenta l’effetto straniante. Webo viene allontanato verso la panchina, mentre si avvicinano Tapl e Tekmedir, il capitano della squadra. C’è grande confusione, si avvicinano anche i giocatori del PSG Neymar e Marquinhos per capirci qualcosa.
Ancora non è chiaro cosa sia successo nel dettaglio, se per esempio si sia usata la n-word, o l’espressione “the black guy”, oppure la parola rumena per indicare il colore nero, molto vicina al termine dispregiativo di cui sopra. Nonostante l’assenza praticamente totale di rumori “non di campo”, visti gli stadi vuoti, non sono emersi video che chiariscano totalmente la questione e pertanto la situazione è campo fertile per i gli appassionati della “contestualizzazione” o per i garantisti del diritto al razzismo
Tra i tanti video che potrete trovare su internet, ce n’è uno, però, che più di altri mi sembra in grado di raccontare quanto la retorica valga zero nei confronti di tutta questa situazione.
Demba Ba sta discutendo con il quarto uomo e chiede spiegazioni sul perché quando si riferisca ai compagni non dica “this white guy”, mentre indichi lui come “this black guy”. E mentre il quarto uomo inizia a giustificarsi, Demba Ba pronuncia una frase semplice ma iconica e riassuntiva dell’approccio più corretto in queste situazioni: “Listen to me”, ascoltami.
È inutile trasformare l’episodio in un processo al quarto uomo, in un tentativo di capire quali fossero le sue “reali intenzioni”. In questo periodo storico, le “intenzioni” suonano più come giustificazioni: non aggiungono nulla alla riflessione ma semmai ne avvelenano i pozzi. Non è importante quale fosse l’intenzione del quarto uomo, se davvero volesse offendere, se fosse il suo “linguaggio familiare” interno al team arbitrale o che altro. L’unica cosa che conta è l’effetto, ciò che ha ottenuto, ovvero la richiesta di tacere e di ascoltare.
Qualche mese fa su Internazionale, Claudia Durastanti pubblicava un articolo dal titolo “Passare il microfono agli altri”. Lo spunto per il pezzo era la lettera pubblicata su Harper’s Magazine e firmata da oltre 150 personaggi definiti intellettuali che andavano da Chomsky a J.K. Rowling contro la nuova ondata del “politically correct”. Questa lettera, in pratica, era un tentativo disumano di tenere per sé il microfono, cercando di decidere cosa fosse realmente offensivo e cosa no, senza, appunto, ascoltare.
C’è la tendenza, specialmente nel calcio ma solo perché riflesso più immediato della società, di immaginare il razzismo come un gigantesco monolite, un qualcosa senza sfumatura. Si è razzisti o non lo si è, semplice. Da qui anche l’artificio retorico - onestamente ormai disinnescato - del “Ho tanti amici…”.
Non ci deve interessare davvero se le intenzioni del quarto uomo fossero sinceramente offensive, ingenuamente offensive o addirittura inconsapevolmente offensive. Ciò che ci deve interessare è che fossero offensive. Può capitare che non lo si comprenda, che alla fine quel “black guy” fosse stato pronunciato innocentemente, l’unico segreto è fare un passo indietro e ascoltare.
In Italia Mario Balotelli è forse l’esempio principe del doppio standard dell’opinione pubblica verso chi non è bianco. Dalla vignetta “satirica” della Gazzetta dello Sport nel 2012 che ritraeva Super Mario come King Kong al dibattito pubblico intorno all’ultimo grande caso che lo ha coinvolto, i buu razzisti durante Hellas Verona - Brescia, che per qualcuno erano addirittura “inventati”. Aspettiamo il caso eclatante facendo finta che il razzismo non sia in realtà soprattutto una massa enorme di micro-aggressioni che diventano un'aggressione vera e propria. Il razzismo, nel calcio, è l’attenzione morbosa dei tabloid inglesi verso i comportamenti quotidiani dei calciatori neri, come denunciato da Sterling un paio d’anni fa; è il bias nelle descrizioni giornalistiche degli atleti, sempre talenti naturali, fisici e istintivi i neri, sempre lavoratori intelligenti i bianchi.
Poi ovviamente ci sono gli episodi espliciti e teatrali che vediamo andare in scena negli stadi. Gli ululati razzisti a Balotelli, Zoro, Sterling, Boateng; la banana lanciata a Dani Alves. Ieri, poi, il paradosso di uno stadio vuoto e di un insulto razzista volato addirittura da un ufficiale di gara, cioè una delle persone preposte a intervenire in caso di episodi di razzismo in campo.
Il problema sta emergendo in maniera sempre più conflittuale. E se qualcuno sostiene la tesi per cui oggi “non si può più dire niente”, e Jorge Jesus arriva a dire che “accusare qualcuno di razzismo è di moda”, è normale che un calciatore sensibile come Marcus Rashford faccia notare che si stanno facendo passi indietro per quanto riguarda il razzismo in campo.
L’incomprensione generale nei confronti del tema è così profonda che sulla prima pagina del principale quotidiano sportivo, la notizia è riportata con la n-word bene in vista, tra virgolette, come se fosse un termine esotico, un qualcosa di lontano che ricorda i tempi andati, un qualcosa di totalmente altro rispetto a noi. La Stampa, invece, questa mattina è andata in edicola con un commento in prima pagina sul fatto che riporta, esattamente, la stessa costruzione linguistica denunciata da Webo.
Se ascoltassimo, invece, capiremmo il peso storico di quella determinata parola, nella storia moderna, senza andare a tirare fuori né il latino né lo spagnolo e faremmo un passo indietro, permettendo a chi per anni ha subito quel termine, di riappropriarsene, di farlo proprio, di dimostrare che alla fine ascoltare è facile. E non si tratta di tabù, si tratta di ascoltare.
Questa sera PSG e Basaksehir scenderanno in campo, dopo che ieri si è provato - sostituendo il quarto uomo col quinto - a riprendere alle 22, con la squadra turca rimasta però negli spogliatoi. Ovviamente si cambierà il team arbitrale e alle 19 anche il girone che ieri ha visto il Lipsia battere il Manchester United potrà vedere la fine. Sono passati solo due mesi da Neymar che a gran voce chiede al quarto di Paris Saint German- Olympique Marsiglia di prendere provvedimenti contro Gomez, reo di aver usato espressioni razziste contro di lui, dopo un diverbio con Di Maria.
Quel caso finì con un grosso nulla di fatto complice l’idea che l’opinione pubblica ha di Neymar (e anche di Sterling, di Balotelli, di Rashford, sarà forse un caso?).
La partita di ieri ha un’importanza storica non indifferente perché ha visto per la prima volta due squadre sedersi allo stesso tavolo andando oltre il proprio interesse personale per affrontare il problema in maniera collettiva, e senza passare dai rappresentanti delle istituzioni in campo, cioè gli arbitri. Se le istituzioni non li vogliono ascoltare, allora grideranno più forte.
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Prima di salutarvi voglio solo ringraziare Emanuele Atturo che mi ha dato una mano a rendere leggibile questo pezzo. Questo il prezzo da pagare se vuoi avere l’onore di fare vittoria reale su Fortnite al mio fianco.