Sono tre giorni che penso quanto segue, mi sembrava giusto scriverlo
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Così, dopo 30 anni, Michael Jordan ha finalmente parlato. In realtà non ha proprio parlato, ha più scritto, è praticamente certo, a meno che non si sia una di quelle persone rimaste ferite dal fatto che anche Gianni Morandi ha un social media manager, che quel messaggio non sia stato scritto direttamente da lui, ma che sia figlio di un lungo lavoro di lima e di lunghe riunioni e brainstorming spesso inconcludenti, che hanno calibrato ogni parola misurandone il peso specifico, per dar vita a uno di quei messaggi un po’ standard che da una parte ci rincuorano e dall’altro non sono che un misero algido contentino per far sì che noi, e così MJ o chi per lui, possa essere a posto con la coscienza.
https://www.instagram.com/p/CA3dQQbncxj/
“A statement”, viene definito da quello che è il profilo Instagram del suo brand, che in qualche modo, negli anni, fin da quella frase resa ancor più celebre da The Last Dance, ha completamento obnubilato il Michael Jordan persona, rendendolo molto più simile al suo stickman stilizzato che salta pronto a una schiacciata piuttosto che all’uomo in carne e ossa che sempre più di rado - se non fosse appunto per operazioni come quella di ESPN e Netflix - abbiamo la possibilità di intercettare. In un NBA fatta, al momento, di personaggi à la Lebron James (o nei ricordi di personalità come quella di Kareem Abdul Jabbar), facciamo sempre più fatica a immaginarci, invece, dei Michael Jordan, dei J.R. Smith che mettono il privato, l’individuo, davanti al collettivo e si incazzano se questo collettivo, in qualche modo, mina il proprio status quo.
George Floyd
Volenti o nolenti, il video di George Floyd e della ricorsività delle sue ultime parole, solo sei anni dopo Eric Garner, è qualcosa che ha coperto ogni secondo passato sui social network negli scorsi giorni, lentamente sostituito dall’edificio sede della Polizia di Minneapolis che prende fuoco, dal video della volante che passa sui passanti ed infine dai video dei protestanti che sfondano le vetrine di Nike ed escono con in braccio anche quattro o cinque scatole arancioni col baffo bianco, in un atto di razzia simbolica pronta a minare lo status quo, non necessariamente un gesto cosciente, ma comunque necessario, che è e non può non essere. Oggi probabilmente quel video verrà sostituito da un’altra appendice della protesta e così via, fino a che il classico moto dei media moderni non deciderà che le piattaforme sono sature di quei contenuti e si passerà ad altro, quasi automaticamente, come quando facendo tap sul touchscreen si passava dal video di un uomo che moriva all’unboxing del gift all’ultimo grido, senza soluzione di continuità.
Black lives matter (ma solo se si comportano come decidiamo noi)
Il caso di Michael Jordan è forse il più eloquente per spiegare una deriva da White saviour che si annida anche in chi, in queste ore, posta screen neri per mostrare la propria solidarietà. Non è l’unico caso, ovviamente, e di seguito ne andremo ad analizzare una manciata.
L’Italia ha un grosso problema con il razzismo, di matrice profondamente diversa rispetto a quanto succede in queste ore a un oceano di distanza, ma che riesce, in qualche modo, a palesarsi anche in chi in queste ore supporta la causa a modo suo. È razzista, in qualche modo, paragonare il caso Cucchi a quello di George Floyd, non tanto perché siano due facce della medaglia violenza, ma per la continua necessità di tentare di mettere il nostro mondo alla pari di un mondo che in questo momento ha problemi ben più grandi della “sola” violenza delle forze dell’ordine.
L’Italia ha un grosso problema con il razzismo, perché in quanto stato vecchio, bianco e borghese, è fatto da una marea di giovani ragazzini che si fomentano nel cantare la n* word senza il minimo contesto, ma poi si indignano se Chiara Ferragni e Fedez non pubblicano un pensiero su Floyd tra una pubblicità degli Oreo e Leone che balla.
L’Italia ha un grosso problema con il razzismo perché sì, Black Lives Matter, ma solo queste “black lives” vengono vissute nel percorso che è giusto nella nostra testa.
Michael Jordan è, nolente, un simbolo della black community. È cresciuto in un contesto in cui il problema del razzismo veniva in qualche modo minimizzato, tant’è vero che Lazenby, nella sua splendida biografia, racconta di quella volta in cui appellò come “stupidi ne*ri” due ragazzi che rubarono dalla panchina della sua squadra di baseball, composta principalmente da bianchi. Sempre nella stessa biografia, pubblicata in Italia da 66thand2nd, si racconta di come MJ scopra l’importanza delle proprie origini grazie a Radici, di certo non un trattato storico, ma un prodotto pop. Un prodotto pop alla pari di MJ che schiaccia a canestro, per intenderci.
Il contesto in cui nasce Air è un contesto in cui far contento il prossimo - piuttosto che scontentarlo - è la base, fosse il prossimo suo padre, un suo tifoso, un suo cliente. La celeberrima frase sui repubblicani e la loro passione per le scarpe, ne è un esempio perfetto. Come non si scontenta nel 2020 la massa superficiale? Dimostrandosi attivi, grazie a uno statement.
Uno dei video che ha girato di più nelle ore immediatamente successive alle proteste, è quello che vede le vetrine di un negozio Nike sfondate. A questo video, Virgil Abloh - un’altra personalità fondamentale passivamente nella costruzione di una narrativa degli uomini black di potere, sempre nell’ottica capitalista perché ehi, viviamo in una società etc etc - ha risposto dicendo un qualcosa del tipo: non andreste in un museo a rubare dei quadri, fate lo stesso con il simbolo della street culture.
Sono tutto sommato d’accordo che guardare al proprio orto in questo momento non sia un qualcosa che ti renda l’uomo più retto e stimabile del mondo, ma davvero, pensare oggi di affrontare qualcosa scindendola dalla narrazione personale di chiunque, in un mondo fatto di tante isole, mi pare stupido. Ecco che, una marea di miei connazionali, ergo tendenzialmente bianchi, si lanciano contro Virgil, un “pagliaccio” a loro dire. Il motivo? La street culture è consumismo, non cultura, smettila di frignare e scendi in piazza con gli altri.
Che la street culture non sia cultura è qualcosa che mi fa tremendamente sorridere, suonare al citofono Spike Lee per sorridere con lui. In queste ore, mentre scrivo, è arrivata la rettifica, in cui Abloh si è dovuto giustificare, sottolineando quanto fosse nero, quanto fosse anch’egli vittima di soprusi, uscendo con il berlusconiano “sono stato frainteso”. Perché per la massa sei nero, sì, solo se ti comporti in un determinato modo.
Quella della rabbia nera è una poetica che viene commercializzata e infarcita di storytelling da un gruppo di pensatori (o imprenditori) bianchi fin dalla notte dei tempi. Del tipo: hai presente perché a un certo punto gli N.W.A. hanno fatto i dischi sotto major? Perché è più facile romanzare e creare una narrazione fiction intorno alla rabbia del ghetto piuttosto che ascoltarla, nell’ennesima spinta pauperistica di bianchi che si informano per pura compassione della storia dei neri.
Kanye West è l’ennesimo esempio di come la popolazione bianca decida come si debba comportare un nero. Il rapper di Chicago, da quando si è seduto al tavolo con Donald Trump è per un certo tipo di narrativa un nero di serie B, perché non si fotte con Trump - lo stesso Trump che per anni è stato simbolo di quell’ottica distorta americana del self made man, tanto cara a Snoop Dogg e affini.
E c’è chi rompe il cazzo a Kendrick Lamar, perché con la sua potenza social, non ha pubblicato uno statement (cercate il nome di K-dot su Twitter). Sì, lo stesso Kendrick di TPAB, di Alright, di The Blacker, The Berry. Lui.
Ho anche io una mia visione del mondo, una visione del mondo maturata grazie al mio lunghissimo privilegio, al mio avvicinarmi a un certo tipo di cultura in maniera piuttosto superficiale in tenera età che mi ha portato a vedere quei prodotti pop di cui si parlava prima (da Boyz in da Hood alle partite di Michael Jordan), per poi portarmi ad approfondire tutta una serie di dinamiche. Potrei stare qui a spiegare come il mio pensiero sia più prossimo a quello di LeBron piuttosto che a quello di un Dennis Rodman che sostiene che sia profondamente errato e controproducente spaccare le vetrine in strada, ma davvero: in che modo il mio espormi e fare la punta al cazzo potrebbe essere utile? Perché devo decidere io se LeBron è più “nero” di Rodman o viceversa, se uno dei due è più degno rispetto all’altro di portare in piazza le proprie istanze? Ci hanno già pensato quelli che probabilmente sono i miei antenati a decidere chi, come e soprattutto dove dovessero vivere i neri, è davvero stupido che perpetui questo comportamento io, oggi, attraverso il mio profilo Instagram.
Non c’è un vera conclusione, forse quanto detto finora è più sbagliato ancora di ciò che io ritengo sbagliato. Penso solo che questa sia una causa mia, certo, ma che io abbia voce in capitolo fino a un certo punto, che dovrei smetterla di vivermela come se fosse una partita di calcio, con la speranza di aver già indovinato il risultato. E soprattutto che dovrei smetterla di pensare a come la black people in questo momento debba comportarsi. Spero, anzi, che ciò che accade in queste ore, abbia una potenza tale da permettere, un domani, a persone come - boh - Bill Cosby, di essere semplicemente un uomo di merda, un criminale, e non un disonore per un’intera comunità. Perché è facile alzare il ditino e dire “Sì, ma non tutti i bianchi…” e allora non pretendiamo però che “tutti i neri…”. È semplice.
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Se avete bisogno di un confronto in seguito a questa lettura, basta rispondere alla mail. Alla prossima.
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