Eccomi amici cari, prima di tutto le giustificazioni: la scorsa settimana mi sono fatto prendere dal panico, la newsletter non partiva, ero in mezzo a una riunione, ho toccato mille tasti. Risultato: ne sono partite due. Perdonatemi per il disturbo. Spero non vi siate disiscritti, nel caso lo aveste fatto non leggerete quest’intro quindi: fanculo!
Questa è PAPER BOI, quello che segue è un viaggio che mi sono fatto guardando un bel film l’altra sera, io attualmente ho la febbre e non so più cosa dire per prendere tempo, quindi: iniziamo. (Record di due punti in un solo paragrafo? Sì, l’ho fatto)
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Sorry To Bother You è un film. No forse è troppo didascalico. Sorry To Bother You è un bel film. Meglio.
È del 2018, se non l’hai visto veditelo, qui c’è una bella riflessione sul tema di Emanuele Atturo in italiano, qui e qui due belle riflessioni in inglese. Farò una brevissima recap veloce (forse recap è maschile?), poi possiamo andare avanti (non spoilererò molto, quindi in realtà puoi leggere quanto segue anche se non lo hai visto).
Sorry To Bother You è una commedia sul potere, sul capitalismo, sul mondo del lavoro e affini. Per dirla come la direbbe (o meglio, come effettivamente l’ha detta) la mia amica Laura Tonini in un post su Facebook: domanda: può un film parlare di razzismo, capitalismo e TUTTAVIA non essere una pesantata didascalica anzi, essere la commedia più figa e intelligente del 2018? risposta: sì. E io non le avevo neanche messo like, che vergogna.
Il film porterebbe, porta e ha portato - come avete letto è del 2018, di due anni fa = sono fuori tempo massimo per parlarne = non ho ancora capito come funziona internet - a riflessioni ben più importanti, ma visto che non ho né la caratura, né le capacità di fare analisi importanti, mi limiterò a farne una futile. Spero non vi offendiate. Un piccolo hook per tenervi incollati: alla fine di questa riflessione, capirete in qualche modo perché esiste PAPER BOI - o più in generale perché questa cosa del rap comincia a essere un pochino strana.
Dicevamo: nel film LaKeith Stanfield è un venditore afro-americano, che scopre di riuscire meglio nel suo lavoro se “fa la voce da bianco”. Con la sua “voce da bianco”, arriva fino a conoscere il capo supremo di ogni cosa, che a un certo punto lo guarda negli occhi e gli dice: “Dai zio, facci un bel rap”, che è praticamente ciò che dice ogni over 50 a ogni under 20 in questo paese. Yo *si gira il cappellino e lo mette con la visiera di lato*.
Prima il nostro protagonista si rifiuta, poi prova a fare un freestyle personale fallendo (perché, pur avendo il ritmo nel sangue, non tutti i neri sanno rappare) e infine inizia a urlare una cosa come “N***a stuff” a ripetizione scaldando la platea. Se non dice stuff dice things, shit o cose simili, non mi ricordo la scena a memoria.
Niente, rivista alla fine diceva N****a shit.
Quando ho visto questa scena, il mio cervello ha immediatamente pensato una cosa: se LaKeith Stanfield fosse italiano, questo sarebbe un documentario su un concerto rap in Italia nel 2020. Wow.
Purtroppo per voi e per il proseguo di questo articolo: sì, siamo bianchi. :(
In pratica, nel film, una platea di bianchi più o meno potenti, decide di assurgere un afro-americano a fenomeno da baraccone, soprattutto nel momento in cui racconta quelle fantastiche ed esotiche avventure che solo a quei simpatici ragazzi che abitano spero almeno a 200km da casa mia accadono. Chiaro, no?
L’Italia è un paese vecchio, bianco e borghese e ho l’impressione che quando ascolta il rap lo faccia tendenzialmente per due ragioni: voglia di esotico e pauperismo.
In pratica: circa 200 anni dopo la morte di Goldoni, il rap italiano sembra aver finalmente risollevato la sorte della commedia moderna in maschera, senza il dialetto veneto (Nex Cassel, non me ne volere).
L’altro giorno ho ascoltato il freestyle di una nuova sensation italiana, che sta macinando numeri in modo incredibile e che come ogni sensation sarà sulla bocca di tutti per un anno buono. All’interno di questo freestyle c’è una barra che mi ha letteralmente mandato fuori di testa, che all’incirca fa: “Faccio girare pacchi, come Uber in Sempione”. Per chi non lo sapesse Sempione è una via di Milano, la stessa dove ci sono gli studi RAI per intenderci. Ora mi sistemo gli occhiali sul naso e vesto i panni del meme “actually”, ma la cosa che mi ha fatto girare più il cazzo è una: davvero sono l’unico al mondo a sapere che in Italia non gira Uber e quindi questa barra non significa letteralmente un cazzo?
È davvero una minuziosità, una punta al cazzo non necessaria, forse, ma il motivo per cui mi piace il rap (cito testualmente un messaggio mandato a un mio amico qualche giorno fa): è perché mi piace il tono di voce diretto, proprio il fatto che la gente parli anziché cantare, mi gasa e perché è un audiolibro in musica, chissene se la storia non è la tua. mi piace il rap per lo stesso motivo per cui mi piace scrivere: perché con la parola puoi letteralmente fare il cazzo che vuoi, essendo anche mega sbracato.
Ora, il potere della parola è importante: se io decostruisco la tua punchline e mi rovini la sospensione dell’incredulità, rovini tutto il gioco, in pratica mi rovini l’ascolto. Ci sono diverse barre che sono così nel rap italiano, che spesso danno l’idea di essere quasi tradotte (penso per esempio a una cit del 2018 che fa: “Sono fresco come l’avvento dell’Euro”, Euro che ha fatto il suo avvento nel 2001 e quindi credo che neanche il latte a lunga conservazione possa ritenersi fresco dopo 17 anni, ma vabbé).
Il rapper che ha scritto la prima rima che ho citato non incontra i miei gusti personali, ma sono tanti i rapper di successo che non lo fanno (penso a Eminem, penso a J.Cole, penso a 50Cent), ma non per questo ritengo il loro successo meno meritato di quello di altri. E non provo neanche fastidio che un qualcuno poco più che 18enne con la faccia da bravo ragazzo e gli occhialini da supplente di matematica provi a fare il G sopra una 808, non mi interessa, non ho bisogno di un patentino dell’università della strada per intrattenermi con la tua musica. Ma davvero è così difficile scrivere senza pensare a LilBaby che può davvero parlare di Uber che girano, per fare il G?
Non sono il primo a dirlo, di recente è uscito un libro per minimum fax di Cesare Alemanni che spiega - tra le altre cose - in maniera molto efficace perché l’industria musicale bianca un giorno decise che un gruppo chiamato NWA poteva far successo, eppure mi sembra un concetto che oggi, specialmente in Italia (ma magari è così in tutto il mondo, ogni scarrafone è bello a mamma soj, però), ciò che davvero fa venire il cazzo duro all’ascoltatore è la narratizzazione - commercializzata- della devianza, che ti permette di prenderti una licenza dalla tua bene o male tranquilla esistenza borghese. O di aggiungere tinte cool alla tua personalità.
Non è un caso che, mentre negli U.S.A. Tyler sbotta perché non ne può più di sentir etichettare la sua musica come urban, qua in Italia si faccia la rincorsa all’urban, tanto che in radio ormai anche il rap di Gué Pequeno o Lazza è diventato urban, senza passare dal via. Tutto è urban, perché per vendere tutto deve suonare afro-americano. Senza esserlo, ovviamente.
Sarebbe probabilmente ottuso iniziare un discorso sull’appropriazione culturale da parte dell’Italia nei confronti del rap: alla fine è un genere musicale e l’Italia inizia oggi a fare i conti con le proprie seconde generazioni, eppure anche un Ghali, come scrissi qualche tempo fa, sembra essere lì solo unicamente in quanto portatore di blackness, piuttosto che come artista. La critica rap italiana mi sembra sempre più spesso la nonna di una delle mie prime ragazze, ai tempi del liceo, che guardando insieme a noi le Olimpiadi Invernali se ne uscì dicendo: “Oh guarda, che simpatico, un neg*o sulla neve”. Senza odio o disprezzo: per esotismo.
Più che l’appropriazione culturale, dunque, il vero torto che facciamo al rap in Italia è quello di ritenerlo uno stupido gioco per gente inferiore, per la maggior parte degli ascoltatori ascoltare una canzone rap è fare un giro allo zoo, per vedere quanto fa ridere un ippopotamo che nel guano si è girato sulla schiena e non riesce più a tornare sulle proprie zampe.
Non è un caso che i rapper “di successo” in Italia siano gente come Trucebaldazzi, Bello Figo Gu e via discorrendo, e che anche la critica pop per masticare fenomeni come la Dark Polo Gang ha dovuto prima renderli dei meme, invitandoli in televisione e facendoli esprimere a gesti, per poi imparare ad apprezzarli, ovviamente per i motivi sbagliati.
La realtà è che la parola “trap” ha premuto l’acceleratore su un fenomeno che era inevitabile, probabilmente, per la storia e la cultura del nostro paese. In Italia non abbiamo bando, non siamo a Compton ed esistono davvero poche situazioni paragonabili a Chicago, in gergo Chiraq. Pertanto “trap” è diventato quasi un sinonimo di Jackass: vediamo chi fa la cosa più pazza nelle storie, ridiamone, compatiamolo e mostriamogli il nostro supporto, quasi come se fossimo dei consoli seduti al colosseo, mentre guardiamo schiavi e leoni azzuffarsi per il nostro rispetto.
Il rap, in Italia, è diventato uno sport da barbari seguito solo esclusivamente da gentiluomini. Così, tra claim del tipo “Lil Fraccazzo Da Velletri risanerà il debito pubblico col suo mixtape” e tatuaggi in faccia sempre più grandi, sarà circa quattro mesi che snobbo il new music Friday e mi ascolto sempre le solite cinque cose, senza andare in fissa per nulla. E mi annoio.
Una volta un saggio mi disse: “In Italia il lol rap non ha senso, perché il rap che fa più ridere è quello serio” e credo non esista miglior riassunto di quanto detto finora. Non ho una soluzione al problema, non sono neanche sicuro di averne evidenziati abbastanza da far sì che si possano addurre come problemi. Volevo solo dire che mi annoio a dover rincorrere la sensation a tutti i costi, a dover cercare quello che ha fatto la cosa più pazza nell’ultima settimana, ma soprattutto volevo dire che io Bando di Anna la ascolto da prima che fosse disponibile su Spotify.
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Questo era uno sproloquio lunghissimo su un tema a me caro, sul quale tornerò altre milioni di volte perché è letteralmente l’unica cosa di cui parlo tutto il giorno tutti i giorni. Parte di questo discorso è praticamente copincollato da una chat con un mio amico, penso si veda, ma di PAPER BOI mi piace anche il fatto di poter scrivere un po’ come mi va.
E a quanto pare anche QUANDO MI VA, visto che all’incredibile sondaggio della scorsa puntata avete risposto tutti (leggi come: me lo state chiedendo in molti) “pubblica quando ti pare”. Sissignore, lo farò, grazie dei consigli.
Se tutto questo borbottio di un vecchio che sente gli anni di “Cioccolata”, ovvero gli anni in cui urlava a tutti “la trap è la novità” (fossi stato zitto, mannaggia a me), stanno scivolando lontano vi è piaciuto potete condividerlo. Come? Con il fantastico bottone.
Seguitemi su Insta, mi racc
E soprattutto piccolo momento pubblicità: ho scritto una cosina per L’Ultimo Uomo, un sito a cui voglio molto bene e per il quale sono sempre felice di scrivere. Il pezzo parla di rap e calcio (wow, che novità!) e dentro c’è anche un piccolo paragrafo che vorrei approfondire qua - visto che da un paio di settimane è anche la mia pp su FB (ok, boomer). Lo potete leggere qui: LINK.
Alla prossima