Un paio di ore fa è uscito questo spot Nike con uno dei copy più belli degli ultimi anni che ho agilmente banfato per il titolo di questo articolo. Si tratta di un breve video di un minuto in cui ScHoolboy Q gioca al suo nuovo sport preferito: il golf. Ve lo lascio dopo la cornicetta di pesche. Comunque, questo spot mi ha fatto tornare in mente una cosa che avevo scritto diverso tempo fa come proposal per un libro che non vide mai la luce. Ora, ho ripescato questo articolo paro paro e l’ho copincollato qui, perché volevo cavalcare un trend e uscire nuovamente di giovedì sera. Tutto ciò è targato circa novembre 2020, se ci sono degli anacronismi, mi perdonerete. Buona lettura.
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Leggendo anche brevi cenni biografici sulla figura di Tiger Woods, anche se la cosa più vicina al golf che si sia mai vista è la celebre puntata dei Simpson che si porta dietro da anni il claim “ammazza che mazza”, non stupisce l’importanza della sua figura. In questo continuo ping pong - giusto per citare un altro sport di nicchia - tra il rap e lo sport, una delle figure appartenenti alla seconda categoria più citate è certamente Michael Jordan. Eppure, leggendo la storia di Tiger Woods, i parallelismi sono tanti: dal padre che gli disegna il sentiero, tanto da regalargli la parte più importante del “nome d’arte”, ovvero quella felina, in onore di un soldato vietnamita che gli aveva salvato la vita durante la guerra che associamo a Rambo più di ogni altra cosa, fino a quell’impressione di onnipotenza che descrivono gli avversari che lo hanno affrontato, specie in giovane età, sensazione accentuata dal fatto che il golf sia uno sport 1vs1. E in uno sport individuale fa strano che il più celebrato, famoso e ricco (o per meglio dire arricchito grazie allo sport e ciò che lo circonda) non sia il più vincente, eppure per Tiger Woods è così.
C’è un’espressione nel rap che in qualche modo è una sorta di titolo, “il rapper preferito del tuo rapper preferito”. Marracash in uno degli album prima dell’esplosione vera del genere in Italia, sosteneva di voler essere uno sportivo, affinché la sua forza e il suo talento di gran lunga superiore a ogni collega, lo rendesse oggettivamente il migliore, the GOAT. Come abbiamo visto per Tiger, ovviamente, anche nello sport non è oggettivo: il record, inteso proprio come dato registrato, non tende dalla sua, e ci sarà sempre qualcuno a rimettere in discussione anche i risultati registrati, vuoi per il periodo storico (avete mai sentito nel calcio le leggende per cui “le difese prima erano più forti”). Probabilmente è un campione ridotto, ma ci sarà ancora oggi chi, alla domanda “Qual è il golfista più forte di tutti i tempi”, risponderà Seve Ballesteros o Sir Nick Faldo, snobbando Woods, per l’appunto.
Qual è dunque il modo migliore per fregiarsi del titolo di migliore? Senza dubbio il rispetto dei colleghi. Eminem è uno di quei rapper che conosce anche chi ha passato solo 40 minuti dei tardo anni ’90 davanti a MTV, uno di quegli artisti che trascende il genere, soprattutto per un fattore meramente estetico: è bianco.
Internet, anche se fa ridere parlare della rete come di una massa unica informe, ma davvero non esiste termine migliore visto che ciò di cui sto per parlare girà dai tempi in cui 4chan non aveva ancora idea di cosa fosse il gamer-gate e Facebook era ancora solo un’idea (probabilmente di qualcuno che non è Mark Zuckenberg ;) ), è piena di video in cui, più o meno bonariamente, mostri sacri come Method Man, Snoop Dogg, Dr. Dre, Kendrick Lamar dicono in sostanza di “stare attenti al ragazzo bianco”. E prima ancora che la tecnica - K-Dot ha ammesso più volte per esempio di essersi lasciato ispirare dalle liriche e gli incastri del rapper di Detroit - lo stile (assente) e l’alto numero di hit, Eminem stupisce per un fattore principale: è bianco.
Quando Dr. DRE si apprestò a firmare Eminem dopo l’ascolto degli ormai desueti demo, una leggenda narra che non fosse a conoscenza del colore della pelle dell’artista che tanto lo aveva colpito. Molti anni dopo, nel 2015 per la precisione, Eminem si gigioneggia del caos che ha portato nell’ambiente, aprendo la sua strofa con una coppia di barre molto esplicite - non nel senso del bollino explicit content, ma molto chiare:
In the beginning a few of the people who had a problem I was this good scoffed, I just shook off
Prob'ly reminded you of the first time you saw Tiger Woods golf
Lo shock è il pane quotidiano per Eminem, poco fa abbiamo citato il caos che, nonostante l’idea di parlare di Golf probabilmente vi porti a un immaginario tranquillo fatto di distese verdi e favolose coppole dalle trame scozzesi, ha davvero un forte legame con questo sport, non solo con Eminem.
In una traccia leaked, ovvero “trafugata” da non si sa dove, che in qualche modo è finita online per errore (più o meno voluto o indotto) scoviamo la prima citazione di Eminem a Tiger Woods. È il 2011, la traccia si chiama GOAT e, se prima Slim Shady era felice di sottolineare lo shock, ora invece sottolinea quell’elemento che torna per l’ennesima volta: il caos.
And I love when the say that Tiger Woods shit
"Isn't it ironic that the best rapper's white
And the best golfer's black?"
And I'm the one who's gotta catch all the flack off of that
Nonostante il rap nasca dalle jam, letteralmente “stare insieme”, quindi dalle feste, per ragioni di marketing e per indole umana, ciò che ha avuto più risalto è lo scontro. Non è difficile da comprendere questa sorta di degenerazione: mettete una serie di ragazzi che vostra nonna definirebbe “perdigiorno” in una stanza con uno svitato che mette musica dai dischi e date loro in mano un microfono, attraverso il quale possono lanciare il messaggio che più aggrada loro. In breve tempo inizierete a sentir parlare di cazzi grossi oltremisura o inizierete a saper disegnare le persone che sono sul palco anche da bendati, grazie al continuo sottolineare di difetti di stile o estetici. Qual è il modo per poter dire di essere davvero il numero uno oltremisura? Eccellere in un campo che all’apparenza ti sembra precluso.
Mentre i principali broadcaster annunciavano, nell’autunno del 2020, la vittoria di Joe Biden alla Casa Bianca, Donald Trump stava giocando a golf. L’epica di Donald Trump e i campi da golf è leggendaria, qualcosa che meriterebbe un libro a parte: dalla tendenza patologica all’inganno e al baro - che abbiamo poi conosciuto attraverso altre forme - alla predisposizione del Green come ring, un po’ come le sessioni di open mic di cui prima. Non è un caso che Donald Trump ami il golf. Questo non significa che tutti coloro i quali amano il golf siano dei nerboruti uomini di mezza età con l’ansia di invecchiare e delle rughe, ma è ovvio che - almeno nell’immaginario collettivo - il golf sia uno di quegli sport legati a un’estetica bianca.
Il Golf ha in sé una matrice elitaria, fatta di circoli, linguaggi predefiniti e soprattutto il fatto che, come altri sport (penso al Tennis) abbia bisogno di una serie di strumenti che oltre a essere costosi, difficilmente possono essere improvvisati. Il Golf ha dalla sua, però, anche una forte estetica: basti pensare al premio per chi vince al The Masters, uno dei quattro tornei major del nostro sport.
Non è un caso, in realtà lo è ma mi piaceva vestire i panni di Adam Kadmon per qualche riga, che fin dalla sua prima edizione (nel 1934) e per le successive 83 sia l’unico torneo major a essere giocato sullo stesso campo, l’Augusta National Golf Club, in Georgia. Il detentore, ça va sans dire, è al momento Tiger Woods, che ne ha vinti 5, uno in meno di Nicklaus, il più vincente del torneo.
Ma parlavamo di estetica e di premi: il vincitore del The Masters, oltre a una coppa e una medaglia, riceve in quello che ora mi spingo a definire comodato d’uso, la Green Jacket, un capospalla verde (l’avreste mai detto) che per un anno è suo e solo suo. Inizialmente l’utilizzo di questa giacca verde era pensata solo all’interno del circolo georgiano, con il passare del tempo i campioni possono tenere nella propria magione l’abito, indossandolo solo in particolari casi e cerimonie. Per tornare ai gusti di Trump, è in pratica la versione elegante del gigantesco cinturone della WWE che ognuno di noi da bambino ha sognato di sollevare al cielo almeno una volta (o magari lo ha fatto con una qualche riproduzione in plastica).
Alla base del rap, oltre che la sfida come abbiamo già visto, c’è l’ostentazione. Per narrare la storia di questa sorta di deviazione - che infatti nella sua storia ha avuto diversi fasi di rigetto, basti pensare a tutto il periodo fatto di collane in legno raffiguranti simboli legati al continente africano - non bastano sicuro queste righe, ma ci basta sapere, per andare a parare dove vogliamo parare, che il significato più evidente e che possiamo desumere tagliando con l’accetta tutti i significanti che fungono da orpelli è uno e uno solo: riscatto. Non è un caso che prima di diventare presidente degli Stati Uniti (in alcuni casi anche dopo, ma ci arriveremo) Donald Trump fosse un simbolo per persone come Snoop Dogg e che ancora oggi, anche nei profili social di rapper italiani si leggano frasi come “lo stimo come imprenditore, ma come politico mi fa schifo”. Donald Trump era il sogno americano, il self made man. È davvero così? Ovviamente no. Ma questa è un’altra storia.
Qual è il più grosso self made man - o uno dei, anche qui non siamo nel campo degli sportivi per cui tutto è oggettivo, nonostante in realtà i conti in banca possano se non altro darci dei parametri - della storia del rap? Be’, ma ovviamente Puff Daddy, P Diddy, Puffy, Diddy, Love, Brother Love anche conosciuto come Sean Combs.
Il Bad Boys World Champions PGA Tour è un torneo di finzione che fa la sua apparizione per la prima volta nel video di Mo’ Money Mo’ Problems, uno dei brani di più successo del compianto Notorius B.I.G. Nasce proprio dalla relazione tra The Masters e Tiger Woods: qualche mese prima dell’uscita del videoclip, un 21enne Woods si apprestava a diventare il primo uomo nero e il più giovane della storia del torneo a trionfare (o vestire la giacca verde, spero che sia un termine realmente utilizzato per definire il campione del torneo georgiano).
Fuzzy Zoeller, uno dei più celebri golfisti della storia, che gli utenti di Wikipedia ricorderanno per sempre come l’uomo che ha provato a far loro causa, non prese benissimo questa vittoria. Quello che vado a raccontare è un capitolo della storia concluso da tempo, Tiger Woods decise di accettare le scuse, ma fingete di essere nel 1997, che tutto ciò non sia mai successo o fingete di pensarla come me in cui in una sorta di vino veritas ciò che si dice a caldo ha un po’ più di valore di scuse a freddo. Fatto sta che appunto nel ’97 Zoeller vede trionfare Woods e dando così sfogo alla sua natura da “jokester” come proverà a giustificarsi dopo o nel tentativo di essere divertente, come dirà il collega Tom Lehman, commenta la vittoria di Tiger così: “"He's doing quite well, pretty impressive. That little boy is driving well and he's putting well. He's doing everything it takes to win. So, you know what you guys do when he gets in here? You pat him on the back and say congratulations and enjoy it and tell him not to serve fried chicken next year. Got it.” aggiungendo, allontandosi "or collard greens or whatever the hell they serve.” La metto in inglese così che non si perda la violenza di quelle parole, ma per chi non fosse completamente a suo agio (o comfortable per continuare nella gag) con l’inglese, in pratica Zoeller dopo una serie di complimenti di circostanza (“ha fatto tutto ciò che doveva fare per vincere”, “non posso che congratularmi”) decide di dare un twist finale alle sue dichiarazioni, dando a Tiger Woods la raccomandazione di non servire pollo fritto, cavolo verde o qualsiasi altra cosa loro siano soliti servire al banchetto celebrativo.
Quello dell’ostentazione è un processo che come lo Yin e lo Yang si compone di due parti che al contempo sono antitetiche e simbiotiche: in parte, nel rap, c’è una forte matrice di riscoperta delle radici, di tentativo in pratica di non dissimulare la tradizioni delle storie ancestrali che ci accompagnano dalla notte dei tempi. Ma questo processo ha senso solo se contestualizzato nella cornice della storia delle person of color. Se un rapper italiano (bianco) citasse in continuazione Omero o Catullo, risulterebbe ridicolo, perché nessuno mai ha tentato di estirpare dalla nostra storia quelle radici, anzi il Ginnasio è ancora qui a ricomparirmi in sogno come il peggiore degli incubi. La storia delle persone che oggi definiamo indistintamente afro-americani, invece, ha alle sue spalle una violenza che in qualche modo era atta a cancellare un passato a negarlo e da qui ha senso dunque la parte positiva, lo Yin dell’ostentazione. Una semplificazione, ovviamente, ma è per arrivare al punto.
Lo Yang, invece, è quella parte che si sposa fortemente con il concetto di ribellione: ostento qualcosa perché fino a qualche tempo fa quel qualcosa mi era precluso. E dunque arriviamo a Mo’ Money Mo’ Problems.
Sono passati pochi mesi e Puff Daddy, in questo caso detto anche the D to the A to the D-D-Y, si ritrova vincitore di un Torneo Major inventato che porta a due realtà: più soldi e più problemi, ma soprattutto a far rosicare, tanto da spaccare quasi la mazza, un vecchio signore bianco sicuro della propria vittoria vista proprio la natura del rivale. Non sappiamo quale fosse il reale pensiero di Puff Daddy nei confronti del Golf nel momento in cui decide di girare il video di Mo Money Mo Problems, anche se è chiaro il riferimento alla vicenda di Zoeller, ma il messaggio è chiaro: sono giovane, fresco e black e grazie a me stesso (e all’aiuto di Dio), posso trionfare anche qui, sul Green.
Molti anni più tardi chiederanno a Tyler, The Creator se fosse la passione del Golf ad averlo portato a scegliere quel nome per il proprio brand (GOLF per l’appunto). “Vuoi la verità? Tra gli sport è quello che amo di meno”.
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Questo pezzo non ha davvero una conclusione, probabilmente perché all’epoca mi ero ripromesso che lo avrei continuato solo previa approvazione. Questo non è mai successo, ma mi sembrava comunque doveroso, condividere un paio di riflessioni probabilmente confuse sul rapporto tra rap e golf. Vi lascio qui l’intervista che mi ispirò all’epoca, ovvero quella in cui ScHoolboy Q parla di golf.