A differenza di quello che dice la firma, che per pigrizia non cambio, questo pezzo che state per leggere non l’ho scritto io. L’ha scritto un mio caro amico, Dario Forti, che è una di quelle persone che vorrei scrivesse di lavoro, ma che per ragioni che riconducono al suo tentativo di volersi bene non lo fa. In questi giorni, nessuno di noi ha capito perché, è negli States. O meglio, un po’ è stato lì, un po’ in Messico - almeno credo. Ho smesso di cercare di capire i suoi spostamenti, ma un po’ per scherzo, gli ho chiesto se gli andava di farmi un bel reportage. La notte scorsa ho ricevuto un suo messaggio lunghissimo su Whatsapp: era il suo pezzo. Non so come funzioni nelle newsletter, quelle serie intendo, però ecco, questo pezzo mi fa impazzire, vorrei essere a LA con lui, invece sono a Milano e l’unica cosa che posso fare è far sentire anche chi legge un po’ a Compton. Non mi dilungo oltre, anche se avrei tantissime cose da dire, ma so già che per internet ho scritto troppo. Buona lettura.
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Le tre cose che ho saputo su Compton fino a oggi: Straight outta Compton crazy motherfucker named Ice Cube; ci sono dei cowboy che tengono i raga lontani dalle strade facendoli andare a cavallo (e strade valga come metonimia di situazioni pericolose, perché non credo che vadano a cavallo in cielo quindi in realtà in strada ci stanno, ma risignificando la loro presenza presumo); è un posto in cui potrei beccarmi una pallottola. La prima me l'ha insegnata direttamente Ice Cube, nel suo tutto sommato direi riuscito tentativo di farmi assistere alla forza della street knwoledge; la seconda me l'ha raccontata Tommaso dopo aver letto un libro ed esserne riuscito a cogliere il senso nonostante non sia laureato; per la terza, la mia conoscenza più recentemente appresa, devo invece ringraziare Vicky. Vicky è la moglie del mio amico Fred, un ex pompiere in pensione con cui ogni tanto vado a fare dei giri in bici. In un imprecisato momento degli anni '80 è stata Miss Los Angeles, un importante ruolo istituzionale che l'ha portata a tagliare nastri di inaugurazione in tutta l'area di LA, un'esperienza che a suo dire l'ha fatta entrare in contatto con la vera natura di questa città.
È quindi con un'indiscutibile cognizione di causa che quando le rivelo di aver fissato un appuntamento per vedere una casa a Gardena al confine meridionale con Compton, Vicky fa una smorfia come se avessi detto qualcosa di disgustoso mentre ceniamo e vaticina per me una profezia di morte. Poco importa che viva da 30 anni a Corona, cittadina residenziale a un'ora e un quarto di macchina da Downtown, e da altrettanti 30 anni non lasci la sua casa su 3 piani con giardino e fontana zen per mettere piede a LA: a quelli come noi lì gli sparano. Mentre torno a casa, penso che avrei proprio voluto non l'avesse mai detto. Lei e Fred sono tra i primi amici che mi sono fatto qui, e non è soltanto l'aperto razzismo a disturbarmi, ma l'essermi imbattuto in uno stereotipo ancora più pacchiano, una sorta di stereotipo alla seconda, di cui sono stato complice col mio silenzio: mi sembra pazzo pensare che nel 2022 esista sul serio una ex reginetta di bellezza, bianca e bionda, che possa davvero pensare che a Compton degli imprecisati afro-americani non abbiano niente di meglio da fare che sparare a me. Vorrei fosse uno stunt, una di quelle frasi che aggiusti, un po' di sana auto-fiction carreriana per rendere più piacevole la lettura, darsi l'abbrivio per parlare di quello di cui si vuol parlare, invece l'ha detto e basta, e io zitto col cucchiaio nel chili. Alla fine a Compton non ci sono andato ad abitare.
Capire la geografia di Los Angeles è un appassionante corpo a corpo col territorio e un'inquietante lezione sulla mentalità statunitense. Grattacieli giganteschi proiettano la propria ombra su lunghe file di tendopoli in piena Downtown; homeless che spingono carrelli della spesa pieni di borse della pattumiera incrociano lo sguardo di automobilisti nelle loro Model S da 100mila dollari, prima di essere lasciati indietro allo scattare del verde senza il minimo rumore. Non le hanno inventate qui le contraddizioni, ma di sicuro a nessuno paiono dare fastidio, qualunque sia il lato da cui le si vivono. Verso nord le colline e le strade di canyon, impossibili da addomesticare, sberleffi continui con i loro saliscendi al senso economico che qui regola ogni decisione, ogni contro-pendenza uno sperpero di capitale: quota accumulata, distanza percorsa. I giardini delle case intravisti fra i cancelli, un catalogo di dipinti di David Hockney con gli innaffiatoi e le piscine a mostrare il vero oro di LA: l'acqua. I nomi delle strade asettici, non c'è storia qui, a parte Mullholand, la strada di cresta che separa la Valley da LA, dedicata all'ingegnere idrico che con i suoi progetti e le sue guerre dell'acqua ha permesso a Los Angeles di diventare la megalopoli che è oggi. Quell'acqua che regola i rapporti di forza all'interno della mappa politica facendo assomigliare LA a una strana scacchiera (chi ne ha diretto accesso, come Culver City, può costituirsi come città indipendente) e che sarà presto la rovina dei quartieri costieri, destinati ad affondare come l’anima che ci assilla. LA per come la conosciamo non era qui 150 anni fa - quando l'unica cosa a interrompere la vista delle colline dalle spiagge era un'infinita teoria di pompe per estrarre il petrolio - e non sarà qui tra 15 o 20 anni, sia l'acqua alta o l'atteso Big One, il terremoto destinato a distruggere una città poco convenientemente costruita vicino a una faglia. Non esiste nel passato e non esiste nel futuro.
Pausa. Sta diventando uno di quei pezzi senza centro o uno di quei meta-reportage in cui alla fine il racconto del tentativo di racconto diventa il racconto stesso? Brian Phillips in giro per Tokyo per raccontarti del più grande lottatore di sumo vivente che finisce per parlare di Mishima, depressione, letteratura giapponese? (Sì, ti piacerebbe) Ho scritto a Tommaso per proporgli scherzando una minuziosa indagine sulla dichiarazione di Kanye che la 405 sia meglio di Mullholand, ed è qui che mi parla dei Compton Cowboys e mi invita a scriverne: i cavalli sono stati per loro quello che per Kendrick è stato il rap, mi dice. Pezzo gonzo sulle-tracce-di come viene viene o 4 chiacchiere istituzionali passando per la mail delle inquiries? Optiamo per la prima: più libertà, meno impegno (più spazio di manovra per un po' di auto-fiction?).
According to Google, il ranch dei Compton Cowboys è a 45 minuti di bici da casa mia, una distanza che nell'infinito sprawl losangelino sono ormai pronto a definire dietro l'angolo. Non so davvero cosa aspettarmi, la mia esperienza di ranch in California finora è stata quella di persone che se potessero metterebbero il filo spinato intorno all'aria che respiriamo, cartelli NO TRESPASSING ogni 25 metri, con i più libertari ad aggiungere perfino una spolverata di minaccia armata. Forse sono solo il contraltare stereotipico di Vicky, ma i ranch sono una cosa da destra americana, non a caso luoghi prediletti di tre dei peggiori presidenti degli Stati Uniti degli ultimi 50 anni, Bush padre, Bush figlio e Ronald Reagan, il cui Rancho del Cielo sulle montagne di Santa Ynez in California centrale attira ancora oggi numerose visite di fervidi ammiratori. Sul sito dei Compton Cowboys leggo che uno dei loro principali obbiettivi è quello di fare luce sull'importante ruolo degli afro-americani nella storia dell'allevamento dei cavalli e nello stile di vita western. È una cosa molto interessante e già mi pento di non aver mandato una mail per parlare con qualcuno di loro.
Negli ultimi giorni a LA si sono toccati i 33 gradi, e mentre scelgo come vestirmi per non arrivare al ranch completamente pezzato, mi viene in mente che in realtà c'è una quarta cosa che so su Compton: bisogna stare attenti a come ci si veste, perché un colore piuttosto che un altro potrebbe segnalare una supposta appartenenza a una delle due gang della città, i Bloods e i Crisps; sarà (ancora) vero? O è una di quelle storie cristallizzate nel tempo, il tipo di informazione generica ma aderente alla narrativa vigente che puoi trovare su una pagina Wikipedia, pronto a propagarla a tua volta senza conoscerne la veridicità? Opto per una maglietta verde e un paio di pantaloncini gialli: l'unica persona che potrebbe spararmi per come sono vestito è Enzo Miccio.
Da quando vivo qui, mi sono reso conto di aver attivato più volte un processo mentale che mi spinge a cercare di incastrare i posti nuovi in quelli che conosco già: la Valley è la Monza di Los Angeles, tutta la SoCal pare un'enorme Brianza dilatata, strade vallonate e colline ad annunciare le cime della Catena Costiera Pacifica, i cui picchi puoi vedere guidando nei giorni di sole (ossia sempre), come la Grigna da viale Fulvio Testi; San Francisco? Ha un problema di gentrificazione e abitativo come Milano. Sono arrivato a dire che Big Sur assomiglia alle Cinque Terre. E Compton? Compton è Bruzzano, Quarto Oggiaro, la Comasina? Sono cresciuto a Niguarda e il bomber della mia squadra di calcio negli anni delle medie - un ragazzo simpatico e un po' spaccone da Quarto Oggiaro - sta scontando una sentenza di 10 anni per spaccio; un mio compagno delle medie è a Bollate per omicidio e traffico internazionale di droga (beccato con gli ovuli in aeroplano); uno dei miei migliori amici insegna in una scuola media di Bruzzano e ogni tanto racconta di 13enni che rubano la macchina al bidello, intere aule di informatica ripulite dopo che ne sono sparite misteriosamente le chiavi, ragazzini di prima media che consumano cocaina, genitori che è meglio non far incazzare. Eppure, ci ho passato 30 anni in quei posti, e non mi sono mai sentito in pericolo o minacciato un secondo della mia vita. Le cose succedevano, chiaramente, ma come su un binario parallelo. Sarà lo stesso con Compton? La culla del gangsta rap, delle bande di strada più violente d'America, si rivelerà ai miei occhi come una qualsiasi delle suburbie losangeline fatte di case basse, chiese bianche, fast food, piccoli mall, benzinai schiacciati contro cieli limpidi come nei dipinti di Ed Ruscha?
La prima impressione arrivato a Compton è la stessa che continuo a provare in tutta l'area di Los Angeles: un'incessante sensazione di deja-vu a specchio del tempo sperperato a giocare a GTA. Compton è Grove Street, coi canestri sgangherati che spuntano dai giardini sul retro delle case, le officine sulla strada, fast food dimessi e poco invitanti, cholos con le calze fino al ginocchio che lucidano la macchina sul vialetto, il canale secco in cui ho percorso dio solo sa quanti chilometri a bordo di una Sanchez ascoltando Welcome to the Jungle, le palme. C'è perfino il negozio di donuts con l'enorme ciambella sul tetto, davanti al quale una donna col megafono urla in spagnolo qualcosa su Gesù e la possibilità di salvare le nostre anime.
Il ranch dei Compton Cowboys - formalmente noto come Richland Farms - è in una strada tranquilla parallela all'Alondra Boulevard. A parte un pick-up con alcuni adesivi, non c'è niente a segnalarne la presenza, e infatti la prima volta che ci passo davanti lo manco, poi entro in un'altra fattoria che vende direttamente nella stalla bevande fatte col latte appena munto, il cui proprietario mi indica l'indirizzo esatto. Eccoci, qui finiscono i blablabla e il mio temino di geografia urbana e inizia la realtà.
È l'ora di pranzo di sabato e il ranch è deserto, ci sono solo due uomini che lavorano su delle moto. 45 minuti di viaggio e non mi sono preparato niente da dire. Non so, forse suggestionato dalle incredibili immagini del 2020 dei Compton Cowboys che guidano a cavallo una marcia pacifica di migliaia di persone per le strade di Compton in nome delle Black lives, mi aspettavo di trovare il pienone, una sorta di rodeo permanente. Mi avvicino ai due uomini, mi presento e dico semplicemente la verità: ho letto il libro e sono venuto a dare un'occhiata. Riconosco uno di loro, è Chef Kee, mentre l'altro dice di chiamarsi Nino. Sembrano confusi dal fatto di trovarsi davanti una persona italiana venuta fin lì solamente per dare un'occhiata, tant'è che Nino, dopo un breve scambio di circostanza, mi chiede di nuovo come faccio a conoscerli. "T'ha detto che ha letto il libro" gli ride dietro Kee, prima di invitarmi a fare un giro per guardare i cavalli.
Il ranch si sviluppa attorno a un cerchio sabbioso, da una parte tavoli da pic-nic di legno sotto una tettoia, dall'altra i recinti dei cavalli. Gli animali non sono tantissimi, meno di una decina di cavalli, ma sono curati bene e sembrano molto rilassati, mi spingerei a definirli felici se non fosse un concetto così antropocentrico o il tipo di aggettivo che potrebbe spendere un'azienda agricola per le proprie galline in libertà così da costringerti a sganciare 6 euro per 4 uova. Il ranch va avanti grazie a donazioni, fondi statali e governativi, collaborazioni e sponsorizzazioni di brand che non vedono l'ora di associare il proprio nome a una storia tanto bella come quella dei cowboy afro-americani che hanno creato una comunità felice e coesa intorno alla passione per i cavalli. Tra loro ci sono veri e propri imperi del male come Walmart (la cui prima azione nei confronti dei neo-assunti è la proiezione di un video contro le pratiche sindacali) e adidas: sì, le contraddizioni non le hanno inventate qui e posto che non esiste consumo etico all'interno del capitalismo, tanto vale approfittarne. I tipi di cavalli utilizzati dai Compton Cowboys e il loro mantenimento, mi spiega Kee, sono molto costosi, si vai dai 20mila dollari a salire, con cifre che possono raggiungere anche i 60mila. Loro fanno quel che possono come possono, talvolta comprandoli per pochi spicci alle aste, talvolta accogliendo cavalli che hanno subito maltrattamenti. La rilassante sensazione che si ha passeggiando per il ranch è che nessuno persegua sogni di gloria e fama, e la recente celebrità ottenuta è accolta semplicemente come un ulteriore mezzo per raggiungere lo scopo per cui i Compton Cowboys sono nati. Eccomi di nuovo a cercare di incastrare le cose che vedo nelle mie esperienze (provincialismo? auto-assorbimento?), sempre a guardarmi l'ombelico, ma non riesco a fare a meno di pensare a Milano. Racconto a Kee di questa celebre ciclofficina nata nell'orbita di un centro sociale - un posto dove imparare a riparare le proprie biciclette e tramite cui promuovere un tipo di mobilità alternativa in una conurbazione flagellata dai cagers - trasformatasi nel tempo in un negozio e poi in una catena di negozi. Una storia come tante, come tutte, a Milano: la tua pizzeria al trancio preferita apre 100 locali in 5 anni, la pizza inizia a fare schifo ma hey, almeno adesso la puoi mangiare anche al centro commerciale o in trasferta. Niente di diverso dal ristorante a conduzione familiare di hamburger e milkshake aperto poco lontano da qui, a San Bernardino, nel 1940 e che conta oggi quasi 40mila punti vendita: qualche anno fa il data scientist e artista Stephen Von Worley ha calcolato che negli USA il luogo più lontano in cui puoi trovarti da uno dei ristoranti di questa catena è 115 miglia, ma le condizioni perché ciò avvenga sono che tu possegga una MTB e un fortissimo imperativo morale. Ora mi ricordo perché non scrivo mai: volevo parlare dei Compton Cowboys, del senso di comunità e quanto sia importante averne una che faccia da rete di emergenza nel caso si cada, le maglie più strette e la caduta più attutita tanto quanto più è coesa la comunità, invece è un rant contro il capitalismo: adesso sapete come si sente chi fa un viaggio in macchina con me e prova a dirmi che il sindaco Sala ha fatto del bene a Milano.
Come se questo fosse un pezzo per The Vision, ora ci infilo questa citazione da Le città invisibili di Calvino: “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. È una risposta semplice a un problema davvero molto più complesso di così, ma mi viene da piangere ogni volta che ci penso. "Street raised us. Horses saved us" è il motto dei Compton Cowboys. Nell'inferno di Compton - che io non vedo perché non è la mia di sezione di inferno, ma che so per certo esistere - hanno trovato una cosa che inferno non è e la fanno durare e le danno spazio.
Più tardi nel pomeriggio il ranch si anima. Arriva una famiglia di origine messicana, due donne e un ragazzino, con un cartone di birre. Sono lì per provare ad andare a cavallo. Il loro destriero, mi spiega uno dei cowboy, sarà un warlander, un possente incrocio tra un frisone e un cavallo di razza iberica (andaluso, in questo caso). Il posto si riempe di ragazzini di tutte le età. Giocano, non necessariamente con i cavalli. Qualcuno mette su la musica, parte Nonstop di Drake (I don't know nobody else that's doin' this...), una bambina - non avrà neanche 3 anni, il caschetto troppo grande che le balla sulla testa - aiuta una ragazza a strigliare uno dei cavalli. Seduti ai tavoli da pic-nic, Nino mi presenta agli altri dicendo 'This fam came from Italy!'. Bzzz bzooop, mi sciolgo.
Appena imbocco la strada per tornare a casa, incrocio una delle due donne messicane a cavallo del warlander, accompagnata dal cowboy che ne tiene le briglia. Cielo azzurro, palme. I see them pass by my house and it always puts a smile on my face, dice un commento sotto un video prodotto da Google dedicato ai Compton Cowboys: +1.
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