Ciao, bando ai convenevoli. Sappiamo tutti di cosa andremo a parlare e come, quindi direi di andare dritti al sodo. Buona lettura.
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Questa mattina mi sono svegliato che fuori dalla finestra pioveva. Uno dei grandi lasciti del periodo in cui l’Italia ha scoperto quello che chiama smart-working, è questa sorta di settimana breve per cui il venerdì - tendenzialmente - gli uffici sono vuoti. Quindi il mio primo pensiero mentre sentivo la pioggia battere sul velux era che questo venerdì mi sarei allineato alla massa, sarei rimasto a casa a terminare le mie cose e avrei scampato una Milano che sembra una giungla quando le nuvole decidono di sfogarsi sul cemento. Poi, come spesso mi capita, mentre ancora pensavo al mio piano perfetto, ho aperto Instagram.
Siamo in un periodo in cui la nostalgia la fa da padrona, sempre, un periodo storico in cui internet accelera i tempi e quindi persino ciò che fino a qualche tempo fa sarebbe stato presente, oggi ci sembra passato, talvolta remoto. È un trend, anche musicale, che stanno abbracciando in molti, basti pensare (e ne parleremo su queste pagine fra poco) a come si è trasformato il concetto di “campione” e “campionamento”, che è sempre più vicino a quello di cover/remake piuttosto che al suo valore originario.
La prima cosa che ho visto stamattina aperti gli occhi, dunque, è una bandiera affissa su un ponte sui Navigli con una citazione un po’ Dogo un po’ Wu Tang su sfondo nero che recitava “CLUB DOGO IS FOR THE PEOPLE”, tutto in caps, come si confa agli slogan veri. Il me teenager, quello che non tiene conto della cervicale e del mal di schiena, si è detto che anche questo venerdì era l’ora di scendere per strada, andare a toccare con mano e vedere dal vivo quello che a conti fatti era una sorta di monumento, caduco per natura, vero, ma senz’altro storico.
Quando parliamo di “nostalgia”, in teoria, oltre che del ricordo di un qualcosa del passato a cui siamo particolarmente legati, diamo una sorta di connotato negativo al tutto, come se questo legame affettivo ci tappasse un po’ gli occhi, ci facesse indossare uno di quegli strumenti che permette ai cavalli di non distrarsi e proseguire dritti per il proprio cammino, in questo caso le convinzioni.
Ecco, molto spesso quando diamo quest’accezione al termine nostalgia ci prendiamo, eppure non è un termine che userei per il tanto atteso, tanto sperato e - per lungo tempo - accantonato ritorno dei Dogo.
Mentre percorro a piedi la strada che mi separa da casa ai Navigli, ho riascoltato un po’ in shuffle gran parte della discografia di quello che a conti fatti - per me, ma credo di parlare per tutta la mia generazione - è stato il gruppo che mi ha formato. Non so cosa volessi fare vedendo quello che alla fine era un pezzo di stoffa nero appoggiato su un ponte che ho percorso fin troppe volte. Sapevo però che volevo finire lì davanti, imprimere sulla mia retina quel momento e sapere di averne fatto parte, di essere stato nel posto giusto nel momento giusto.
Anche se il tempo lenisce gli hater, i Dogo sono stati uno dei gruppi più di successo della storia di questo genere e pertanto uno dei più criticati. Personalmente senza i Dogo avrei una concezione completamente diversa di quello che è il rap, di come bisogna fruirne e probabilmente sarei molto più lontano dal rap americano di quanto lo sia adesso. Avrei una visione del rap più politicizzata, meno zarra. Senza i Dogo probabilmente non avrei mai messo piede in un club, non avrei capito la trap, non avrei visto Milano per le prime volte, vagando per via Mora perché si beccavano lì, non sarei andato in fissa per lo streetwear perché vedevo i pezzi su di loro e pensavo che avrei dovuto averli anche io.
Non sono l’unico ad arrivare tardi sui Navigli, quando arrivo non c’è più la bandiera, però c’è chiaramente un flusso di gente che - anche da lontano - almeno una volta nella vita si sono definiti dogofieri, con quel richiamo che attingeva a piene mani dal mondo che a Genova chiamavamo truzzo. Mentre giriamo alla ricerca del ponte, convinti di aver sbagliato noi, intanto su Instagram esce il trailer che annuncia che qualcosa sta succedendo davvero, non sono solo voci.
Non mi succedeva da tempo, eppure ho sentito internet uscire dagli smartphone. Ora sto scrivendo che il sole sta calando, saranno passate quattro, cinque ore da quando è uscito il trailer e non sono passati mai più di 10 minuti tra un “Minchia Beppe Sala” e un “Figa, ma allora stanno tornando davvero”, come se fosse un lungo sketch dei Soliti Idioti.
Quella dei Dogo non è nostalgia perché come dice giustamente il trailer, c’è ancora bisogno. Forse è il momento storico migliore per un ritorno del genere, il rap in Italia ultimamente sembra un po’ confuso, non sembra avere chiara quale sia la direzione giusta da prendere. Al contempo i mostri sacri del genere in Italia a livello mainstream sembrano aver finalmente iniziato a raccogliere con gli interessi tutti gli sforzi dei loro vent’anni di carriera. Un ritorno dei Dogo in questo momento ci potrebbe dare un nuovo punto di vista sul gruppo milanese, una prospettiva più matura, più consapevole e soprattutto necessaria.
Ho letto in giro, su una storia di Instagram, che siamo fortunati a star vivendo questo giorno, a poterlo raccontare. Sono sicuro che sarà così, qualsiasi cosa dovesse succedere nel 2024.
Impara la Storia e mettila da parte
Invece a me piace scrivere nel dinamismo, ed eccomi su un treno mentre aspetto l’assistenza di un gestore telefonico che non risponderà mai, a riflettere su questa cosa dei Dogo.
Ci sto riflettendo da questa mattina a dirla tutta, anche se a me interessa notare come il pubblico reagisca. Mi spiego, io che di anni ne ho quasi 28, mi confronto spesso col pubblico del rap giovane, quello che ha riempito gli stream di questi anni; tra di loro ho letto tante volte ‘godo’. Loro non ha vissuto i Dogo, qualcuno gliene ha parlato, ma non sanno nulla di quel periodo e non tutti hanno ascoltano i loro dischi… di cosa si gode, quindi? E ho chiesto perché.
Un solo ragazzo non mi ha risposto come tutti gli altri, gli altri che han giustificato con hype da grande fratello il ritorno del gruppo, senza motivazione, solo influenza mediatica.
L’unico ragazzo mi ha detto ‘non li conosco, ma assorbo la notizia come se stesse uscendo un joint album tra Jake e Guè’ (povero Don)
Che riflessione onesta e valida: si sono aperte due strade avanti a me, la mia che ho vissuto i club dogo, e quella di un ragazzo che prende la notizia senza Storia, quella da S maiuscola.
Lui se la vive sicuramente meglio di me, e da questo devo imparare, perché invece io non riesco a escludere la Storia, sbagliando, come un buon critico marxista, e devo per forza costruirci su.
Io non godrei al ritorno dei Dogo, se devono tornare gli ultimi dogo: negare che fuori da qualche pezzo (se tu fossi me, tipo) quei dischi erano brutti dischi equivale a negare che Sfera abbia fatto i soldi: è alla luce del sole, e va bene così. Quindi che dogo tornano? FORSE e dico FORSE, nessuno. Forse non torna un cazzo, aveva ragione il ragazzo, probabilmente sarà un joint album senza Storia, se non con qualche barra a celebrarla, forse sarà un disco in cui i Dogo possono fare quello che gli pare, senza stare alle leggi di un mercato che li ha ostruiti negli ultimi lavori. E di questo ne sono (forse) contento.